Il tempo sognato che bisognava sognare di Jia Zhang-ke

Viaggia nel tempo Jia Zhang-ke. Viaggia e lo penetra, lo scompone, lo confonde. È il tempo che determina gli spazi. È un flusso che si arriccia e poi si distende. È un ideale tempo-rifugio, la casa dentro cui rinchiudersi per fingere di essere come molti anni prima, per ricordarsi da dove si proviene, per leggere il presente con l’ottica del fallimento, delle speranze tradite e con il peso degli errori individuali e collettivi. Jia Zhang-ke con I Figli Del Fiume Giallo prosegue la rappresentazione del contrasto tra vecchia e nuova Cina in piena coerenza intellettuale, creativa e di scrittura con tutti i suoi film precedenti. Ma, a differenza di questi, nel suo ultimo (capo)lavoro è come se abbia chiuso il cerchio, esaltando come mai prima di ora il contrasto tra vecchio e nuovo . Nei protagonisti dei I Figli del fiume Giallo c’è il tentativo di ritornare, per dirla alla Fossati, a quel tempo sognato che bisognava sognare. Non per ansia melanconica ma per ancorarsi all’unico momento esistenziale in cui l’essere fuori dal tempo, appunto, aveva un significato preciso. È per questo che Jia Zhang-ke gioca con l’ambivalenza del titolo originale del proprio film, in cui Jiānghú érnü ha una doppia se non tripla valenza: i figli dei fiumi e dei laghi sono in realtà gli eredi dello Jiānghú (fiumi e laghi), il cuore del genere letterario wuxia, la cui declinazione cinematografica ha di fatto sdoganato il far east asiatico nell’universo della celluloide. Creare uno scheletro di personaggi legati all’iconica di genere permette quindi di aggiungere un ulteriore chiave di lettura sulla Cina del XXI secolo.

Per rendere coerente la propria storia Jia Zhang-ke pone al centro della scena due protagonisti. Da una parte la ballerina-donna del capo, Qiao, la sempre straordinaria moglie del regista Zhao Tao, dall’altra il gangster Bin, l’altrettanto bravo Liao Fan, le cui vicissitudini sentimentali e non attraverseranno diciassette anni della storia cinese, dal 2001 al 2018, per una riflessione che si pone a naturale complemento di ciò che l’autore aveva mirabilmente descritto in Still Life e nel più recente Al Di Là delle Montagne. Nel primo, l’occhio dell’autore registrava lo sconvolgimento sociale che l’improvvisa modernizzazione cinese stava provocando. Ad estirpazione avvenuta la devastante perdita delle radici creava una generazione senza alcuna memoria storica: era il tema del secondo. In I Figli del Fiume Giallo quei due momenti ben precisi tornano d’attualità, vuoi perché fin dall’incipit Jia Zhang-ke usa repertorio scartato dalle proprie opere precedenti, uno stupendo spaccato in 4:3 di volti al’interno di un autobus, dove la camera si fissa sullo sguardo di un bimbo che sembra interrogarci, tratto dal girato di Unknown Pleasure, per poi virare bruscamente al gelo di un’immagine ripresa dall’alto di una metropoli silenziosa e forse prossima alla distruzione, e tornare al 2001 all’interno di un locale fumoso dove i futuri eroi perdenti del suo film giocano con gli schemi del genere wuxia. Così in quei pochissimi minuti iniziali Jia Zhang-ke ci ha già introdotto nella sua sinfonia , dove l’incrociarsi dei movimenti, mai casuali, tra il passato e l’oggi si trasforma in un affascinante gioco anche all’interno del sua stessa estetica cinematografica, con la commistione della tecnica di ripresa e del mezzo usato. Tutto ciò per rafforzare questo nuovo suo viaggio dove il passato si ricrea nel contemporaneo ma appare bloccato, fatiscente, scrostato, fuori da una realtà che ormai è altra.

Il personaggio di Qiao è il medium dell’autore, non solo perché la stupenda per bravura e capacità espressiva Zhao Tao sia la moglie-musa di Jia Zhang-ke. La donna sacrifica l’esistenza in nome di un ideale d’amore nei confronti di chi , Bin, continua a tradire tutti i rigidi precetti del mondo antico e di regole etiche degli eroi del wuxia. È come se il regista voglia sussurrarci che non è più tempo, che la diga delle Tre Gole ha ormai sommerso villaggi, città, ponendoci però una domanda che potrebbe essere una considerazione: lo sguardo di Qiao, proprio perché proviene da un mondo <<sognato che bisognava sognare >> è anche l’unico in grado di cogliere il mutamento. Il rifugiarsi nel luogo dove forse non si è mai stati permette di decifrare la vita. È l’ottica dell’artista, la pupilla del cinema, il cristallino che alla fine del percorso ridurrà il tutto alla propria essenza primaria. Si vedrà una serie di monitor di telecamere di sorveglianza e un’immagine sempre più sfuocata di una donna. Sola. La vita.

Sulla cinematografia di Jia Zhang-ke sono ben poco obiettivo. Amo troppo i suoi film, amo troppo come li gira, adoro quel senso di malinconia mai staccato però da una presa di coscienza sul reale che li permea. Anche I Figli del Fiume Giallo, che in realtà dovrebbe essere azzurro, non fa eccezione. Quando parlo di sinfonia è perché mi trovo sempre al cospetto di opere in cui la composizione è precisa ma varia, ripetitiva nei concetti ma sempre evoluta rispetto a ciò che è stato prodotto prima. Credo che questo film chiuda idealmente un ciclo e che apra una nuova fase nella vita artistica del regista. È la ragione per cui l’uso di materiale << antico >>, l’insistenza di leit motiv propri di Jia Zhang-ke, il ballo, la musica popolare e quella pop- in Al Di Là Delle Montagne c’erano i Pet Shop Boys e Go West, qui ci sono i Village People e Ymca– i lunghi viaggi in treno, le stazioni di notte, la pioggia, le moto che affondano nel fango (ricordate la scene iniziali de Il Tocco del Peccato ?), gli amori perduti e falliti, la centralità dell’individuo contrapposta a una natura modificata dall’uomo(il vulcano silente contro la diga delle tre gole), rappresentano un segno distintivo, un marchio di qualità. Nei Figli del Fiume Giallo tutto questo c’è ma senza il difetto dell’ammucchiata. Jia Zhang-ke unisce e poi, senza permettere allo spettatore di accorgersene, elimina, sottrae sulle note della musica di Lim Giong (vi dice nulla Millennium Mambo?). A piccoli passi, a poco a poco. Fino a quando lo schermo diventa buio. Prima dei titoli di coda. Di un altro suo indimenticabile film.

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