Il Colpevole: film magistrale su colpa e riscatto

Il Colpevole, opera prima dello svedese naturalizzato danese Gustav Möller, è uno di quei film la cui sceneggiatura dovrebbe essere presa ad esempio, tanto è ben congegnata, profonda, intelligente. Se non ci fosse stata questa impalcatura più che solida il castello messo in piedi dal trentenne regista non avrebbe retto che pochi degli 85′ della sua durata. Perché tutto il film si svolge all’interno di due stanze di una centrale di pronto intervento della polizia, ha un solo protagonista in scena, il bravissimo Jakob Cedergren, e una serie di voci telefoniche. Basterebbe questo per far comprendere quanto azzeccato sia stato l’esito di un’opera che ha vinto al Sundance– a volte non proprio indice di film di assoluta qualità- ed è stata apprezzata al Torino Film Festival che prosegue ad essere la rassegna italiana più credibile nello scovare le chicche che vengono girate nel mondo.

Inserire Il Colpevole nel filone del thriller è riduttivo: in realtà il suo autore mette in scena un’opera tutta giocata sulle sfumature psicologiche del proprio protagonista, un poliziotto in attesa di un processo per un evento del passato, che si ritrova costretto allo smistamento quasi burocratico delle varie richieste di soccorso dei cittadini. Tra una chiamata telefonica e un’altra ne arriva una molto differente. Una donna sembra essere in difficoltà. Asger Holm, il personaggio interpretato da Cedergren, intuisce di avere dall’altro capo del telefono una situazione vicina all’abisso, la stessa sulla quale lui stesso sta camminando. Così tutto il film diventa ciò che vuole essere: un continuo confronto tra senso di colpevolezza e tentativo di espiazione, tra la ricerca di una catarsi individuale e il senso profondo di sconfitta. Le voci acquistano significato, le parole pesano come macigni. Come se avesse tra le mani un fiore al quale strappare i petali, il regista con chirurgica precisione spoglia a poco a poco il proprio antieroe, lo mette a nudo di fronte all’evidenza. La voce della donna in apparente pericolo è quasi un’eco a cui Asger Holm non può sottrarsi. È occasione di riscatto morale, è soprattutto il medium attraverso cui affrontare il proprio demone interiore. E c’è una domanda strisciante che Gustav Möller sembra porci giocando con il suo soggetto: cosa è la colpevolezza, quali sono i suoi limiti? Non a caso l’autore de Il Colpevole crea bruschi cambiamenti di prospettiva che poi serviranno a rafforzare un finale importante.

La bellezza de Il Colpevole corre costante sul filo emotivo degli spettatori dalla prima all’ultima battuta. Perché mai come in questo caso siamo nel territorio del no action movie che solo autori particolarmente dotati possono approcciare. Non una novità assoluta nella storia passata e recente- Locke ne è un esempio degli ultimi tempi– ma una ventata di intelligenza di scrittura cinematografica troppo spesso abbandonata a favore di vacui fuochi che coprono il nulla da dire. Il Colpevole invece è un crescendo continuato, un restare in apnea, un cercare di offrire a chi partecipa in sala gli stessi affanni di chi si trova nello schermo. C’è un processo di identificazione quasi assoluto tra film e spettatore; non una mosca che vola, non un telefonino che si mette a vibrare ma tutti concentrati nel dinamico percorso mentale su ciò che Möller propone. Così la stanza del 112 danese diventa il mondo e il suo antierore Jakob Cedergren l’essenza di ogni individuo nel bene e nel male, l’uomo che nonostante la finzione ha ancora il coraggio di penetrare nei propri incubi, di decifrarli e, attraverso il riconoscimento della colpa, di riscattare se stesso e gli altri.

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