I miserabili ingordi di Daniele Ciprì

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AUTORE originale, differente, fantasioso, creatore di un linguaggio espressivo tutto suo, Daniele Ciprì può essere soddisfatto del suo <<E’stato il figlio>>, presentato in concorso alla Mostra di Venezia del 2012. Perché ha realizzato un film molto bello, intelligente,  che non sfigura affatto nel confronto con quelli che il blog ha proposto nei giorni e nelle settimane passate. Anzi. In un’ideale graduatoria del tutto individuale, <<E’stato il figlio>> rappresenta assieme a <<Reality>> di Garrone l’opera più originale, molto definita, impossibile da paragonare a una tipologia di cinema più classica o tendente alle tradizioni. E dire che il film di Ciprì è infarcito di lezioni di classicismo: c’è un personaggio <<guida>>, una sorta di terza persona narrante, il miglior attore messicano vivente Alfredo Castro che chi ha visto i capolavori di Larrain <<Tony Manero>> e <<Post Mortem>> non può non riconoscere. C’è la sicilianità più autentica, non quella ovattata, stereotipata mettiamo con classe ma tutto sommato sempre da cartolina turistica di Tornatore, c’è un magnifico spaccato degli Anni’70, c’è un gruppo di attori con Toni Servillo in testa da inchinarsi e c’è infine un discorso profondo sui simulacri della ricchezza, sui rapporti familiari, sulla relazione tra denaro e individuo. Esiste persino il coro della tragedia greca, un contorno fatto di sguardi, espressioni. Come quella di Pier Giorgio Bellocchio che non emette un suono e rivela l’essenza del proprio sordomutismo solo nel finale.

E’UN FILM riuscito, bello, persino divertente. L’ironia caustica di Ciprì non si risparmia, fa scorrere <<E’stato il figlio>> con velocità dall’inizio alla conclusione, smorza i toni del dramma, conducendo lo spettatore nella tragedia ma ancora con la possibilità di sorridere persino nelle scene madri. Perché l’autore è questo:fotografa l’esistenza senza fare sconti a nessuno, non scendendo a patti con il sentimentalismo edulcorato o, al contrario, con l’eccesso di freddezza. Esistono vari modi per descrivere le tragedie dei ridicoli umani. Ciprì è uno degli autori che preferisce dilatare a dismisura per arrivare al nucleo. Dilatando spoglia, con il grottesco spiega, con l’improbabile mostra, permettendo allo spettatore di non perdere mai il filo del discorso. Questa è la sua grande forza che unita alla tecnica eccellente di ripresa, di scelte scenografiche, di uso dei colori ne fa un autore di culto e, si spera, dopo questa opera, maggiormente conosciuto al grande pubblico. Lo merita.

BUSU è seduto in ufficio postale di Palermo. Racconta una storia a chi gli sta a fianco. Non sappiamo perché si trovi lì, sappiamo che siamo nell’oggi e potrebbe narrare una leggenda del passato. Parla di una famiglia, i Ciraulo dove Nicola, Toni Servillo in stato di grazia, recupera ferro e rame assieme a figlio e anziano padre dalle navi in disarmo. E’un’esistenza faticosa e precaria che al cospetto di quella del nipote Masino, in odore di traffici loschi e di piccola mafia, assicura appena il giusto per vivere, per andare a prendere il sole al mare quando viene chiusa l’acqua nel palazzone popolare dove tutti quanti vivono, per salire su una Fiat Ritmo arrugginita. Sembra anche una famiglia serena, che si accontenta del proprio poco. Fino a quando, casualmente e per responsabilità indiretta di Masino, la piccola figliola Serenella viene ammazzata per sbaglio da due sicari. E’il momento in cui la perdita viene barattata dal dio denaro. I Ciraulo scoprono che hanno diritto a un indennizzo statale come vittime di mafia. La cifra assegnata sarà di 200 milioni di lire. Così la tragedia della morte della bimba passa in secondo piano rispetto alla ricerca dell’ottenimento di quel denaro che stenta ad arrivare. Il <<soldo>> inizia a muovere e a corrodere tutti i componenti del piccolo clan. Nicola vorrebbe che il figlio Tancredi, Fabrizio Falco, iniziasse a lavorare e a portare qualcosa a casa. Si indebita con gli strozzini fino a quando il denaro apparecchia la tavola e cambierà per sempre il destino di tutti quanti. Con 200 milioni di lire ognuno sogna  a modo suo. I genitori di Nicola vorrebbero un loculo in riva al mare  quando saranno morti, la moglie una cucina nuova, il figlio la televisione, che esiste in casa ma non prende i canali nemmeno quando il nonno con l’antenna in mano-sempre- cerca di trovare la posizione giusta. Ma è un simulacro a mettere tutti d’accordo: una Mercedes nuova di zecca, da 80 milioni. Questa, secondo Nicola, mostrerà a chiunque il raggiungimento di un nuovo status sociale. Sarà l’inizio di una fine che si concluderà in tragedia. Doppia, tripla, alla siciliana. Solo alla conclusione scopriremo chi in realtà è il misterioso Busu, colui che narra. Lo ritroveremo questa volta in silenzio a rivivere l’epilogo del dramma nelle stesse stanze in cui si è consumato.

L’UMANITA’ di <<E’stato il figlio>> fa il paio con quella di <<Reality>> di Garrone. Se la ricerca spasmodica della realtà nel virtuale di Aniello Arena-Luciano si sublima nell’essere spettatore-attore nella casa del Grande Fratello, quella dei Cirauto elegge un’automobile come simbolo di riscatto da un torto subìto. Con una differenza sostanziale: mentre in <<Reality>>Luciano è comunque arbitro, seppure inconsapevole e amorevolmente seguito dal regista, del proprio destino, in <<E’stato il figlio>> le esistenze sono preordinate dal nucleo sociale che si chiama famiglia, dove le figure femminili assumono le decisioni che poi determineranno le vittime. Busu sarà il grande sconfitto da questo stato di cose, sarà la vittima incolpevole, l’innocente da punire e Nicola colui che verrà freddato dagli dei per il proprio peccato d’ingordigia, anche questo comunque gestito con grande sentimento e ben poco disprezzo da Daniele Ciprì.

UN FILM del genere, recitato in siciliano a volte maccheronico, non potrebbe mai reggersi senza un cast di attori in grado di assecondare la specificità del regista. Mi viene difficile immaginare qualcuno meglio di Toni Servillo, qui forse nella sua interpretazione più riuscita. E’una maschera da commedia dell’arte, per le movenze, i tic, le caratterizzazioni. Si annulla ancora una volta per entrare in un personaggio pieno di sfumature. Il difficile era renderlo tragico ma in modo ironico e in questo sta la grandezza dell’interprete. Fabrizio Falco, che a Venezia ha ricevuto il premio Mastroianni per questa interpretazione di Tancredi e che aveva impersonato il personaggio di Pipino ne <<La bella addormentata>>– guarda caso sceneggiata dallo stesso Ciprì- con i suoi silenzi, i suoi sguardi stupiti, il suo stato di quiescenza quasi perenne quasi vedesse la tragedia anche personale che si consumerà, dimostra di essere un attore giovane dalle potenzialità importanti e  per questo in molti lo paragonano a Elio Germano. Ma ci sono anche gli attori di contorno: da Benedetto Ranelli a Giselda Volodi fino al già citato Alfredo Castro con la sua maschera trasognata, fool shakespeariano che poi offrirà la spiegazione della propria diversità e a Pier Giorgio Bellocchio, che pur restando muto tutto il tempo ha un’espressività da grande attore. Sta in silenzio, guarda e ascolta con occhi allucinati e impercettibili movimenti del volto. Forse è lui il terzo occhio di Ciprì, un regista che sa raccontare storie a modo suo, senza scimmiottare nessuno. Un maestro senza tema di smentite.

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