Finale di partita come inizio

beckett.jpgE’dagli inizi del 900 che si dibatte della vitalità della letteratura, della sua funzione, della sua probabile morte e inutilità necessaria. Oggi, nella pagina letteraria del Corsera, Paola Capriolo accenna all’ultimo libro di Michael Krueger (se sapessi come si mettono le dieresi premendo i tasti eviterei di inserire la e…tra la u e la g) << La commedia torinese >> uscito da Einaudi nel quale l’intellettuale tedesco ripropone una domanda che spesso gira tra gli stessi scrittori. La funzione vitale del romanzo ha ancora un senso, oppure il romanzo è morto, sepolto, riducendosi alla fine a una serie di semplici citazioni messe assieme, come accade appunto nella trama di questo libro? Come molte cose della vita anche questa non è nuova, semmai una ripetizione. Un quesito sul quale si spaccano e si dividono gli schieramenti a seconda delle ideologie e delle esperienze individuali degli artisti. Samuel Beckett, per esempio, viene considerato storicamente come uno dei propugnatori della teoria negazionista. Scomponendo le parole, rendendole secche e apparentemente assurde l’artista irlandese si era spinto laddove Joyce aveva toccato i confini. Però bisogna ricordare che Beckett, pur nella sua visione di avanguardia, aveva, come capita ai grandi maestri, creato esso stesso una nuova forma di letteratura. Negando il mezzo, distruggendolo, facendo esplodere con le sue piece teatrali anche quel tipo di arte, ne creava, a parer mio consapevolmente e in modo scientifico, un’altra dalla quale ripartire. Certo Beckett non è l’esempio migliore da riferire alla narrazione per storie: il premio Nobel viene ricordato come intellettuale che ha agito maggiormente sulla scena teatrale più che romanzesca( leggete la sua prima cosa Murphy mi raccomando). Eppure mettere in scena una delle sue innumerevoli opere dell’assurdo è operazione faticosa perché il regista si trova di fronte a una precisione, a una capillarietà di informazioni tecniche che paiono smentire lo stesso autore, capace di dirci di non credere più a una forma e allo stesso tempo indicare come renderla fruibile alla moltitudine senza alcuna opportunità di metterci tocco personale. Così rappresentare Beckett diventa più difficile che con Shakespeare. Io diffido sempre di queste discussioni perché parto da un dato che mi appare incotrovertibile: nel momento in cui un creatore di arte si mette a negarla facendola, quindi partorendola, crede ed è convinto di ciò che sta realizzando. Non nega il cammino, ne trova un altro, sia esso migliore, peggiore, più moderno o antico, ma lo percorre. E’per questo che la funzione della letteratura -nel nostro caso ma potrebbe trattarsi anche di altro- resta sempre quella strepitosa inutilità che ci permette di comprendere meglio il dolore, l’appensantimento dell’esistente e dell’esistito senza magicamente fornirci alcuna risposta risolutiva.

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