Eastwood, il cecchino è appannato

DISPIACE scriverlo ma questa volta la proverbiale mira cinematografica di Clint Eastwood sembra essersi appannata. Non che in American Sniper manchino le tradizionali qualità di regia di uno degli autori più importanti ma è l’impianto narrativo che fa acqua; via via che i minuti trascorrono la sceneggiatura resta sempre di fronte a un bivio, non si evolve, non cresce nella penetrazione. Resta al punto di partenza che fatalmente si trasforma anche in quello di arrivo. Eastwood, si sa, ha sempre privilegiato offrire un’ottica molto personale, individuale, dei propri personaggi. Ha avuto la capacità di ridurre in poltiglia le fin troppo semplici elegie; ha provveduto a ridurre gli eroi a uomini sconfitti e gli uomini singoli li ha portati sul sentiero opposto. Nel corso degli anni ha fornito sempre letture intrise di personalità, scavando, lanciando in aria i luoghi comuni, mostrandoci l’individuo nella propria essenza. Nudo di fronte a noi. Questa volta l’operazione non riesce e non si capisce se per eccesso di rispetto nei confronti del proprio produttore-attore Bradley Coooper o della biografia dello sniper, il cecchino o meglio tiratore scelto dei Navy Seals statunitensi, Chris Kyle che negli Usa ha rappresentato e rappresenta ancora qualcosa in più del miglior tiratore della seconda guerra irachena, ovvero un eroe vero e proprio.

CI SONO vari modi di descrivere le devastazioni psicologiche che le guerre causano ai propri protagonisti. Ed esiste anche una lunga serie di film che dal conflitto vietnamita fino a quello iracheno ha cercato di spiegarle, approfondirle, descriverle. La casistica è sterminata come i proiettili scagliati. Da ragazzino mi aveva colpito il reduce Bruce Dern al cospetto del suo alter ego Jon Voight in Coming Home di Hal Ashby. In anni più recenti a scavare sui sensi di colpa e soprattutto sui dubbi, sull’apnea che grava su quel girone infernale che è la guerra contro un nemico che appare e si dissolve, che è irregolare, fuori dagli schemi, ci hanno provato in molti. Katrhyn Bigelow in The Hurt Locker e in Zero Dark Thirty, Paul Haggis– guarda caso sceneggiatore degli eastwoodiani Lettere da Iwo Jima,Flags of our Fathers e Million Dollar Baby– con Nella valle di Elah, tanto per citarne alcuni. Ma il capolavoro autentico del genere, la base portante di questi ultimi film è il magnifico, anche se poco promosso e poco rammentato, Redacted di Brian De Palma, nel quale c’è tutto: dalla riflessione su come i media possono manipolare l’informazione fino appunto all’approccio psicologico alla guerra e alle sue devianze. Accade quindi che in American Sniper nulla è nuovo e non solo perché ormai tutto è stato scritto, citato, sviscerato. C’è un bel modo di raccontare, questo è vero. Ma è Eastwood non pinco pallo e qualcosa in più da lui ci si attende sempre.

L’INTRAMONTABILE Clint offre l’impressione di una certa timidezza. Segue il proprio eroe specificando fin dalla prima scena che dietro gli occhi azzurri di Bradley Cooper si cela probabilmente il dramma fornito dal punto interrogativo che attanaglia chi deve uccidere. Ma poi non evolve il discorso, lascia parlare le immagini, si affida ai quattro turni nei quali lo sniper viene chiamato a combattere in Iraq per mostrarci il progressivo adattamento alla mostruosità della guerra e relativo scollamento con la vita da civile in famiglia. Ci mostra le basi dell’educazione ricevuta da Kyle, i principi sacri ai quali qualsiasi americano non può rinunciare, ma i dubbi che conseguono all’azione bellica restano sempre superficiali, quasi scontati. Di colpi di genio non se ne vedono anche se a riscattare l’impianto della sceneggiatura è il finale beffardo, che almeno riesce a trasmettere il senso sia dell’assurdità dell’esistenza sia il recupero pieno e totale della << bandiera dei nostri padri >> nel momento in cui il guerriero lascia il posto all’uomo capace di essere uscito dai propri incubi. È l’istante migliore di << American Sniper >> che può benissimo essere visto da due punti di vista opposti, elegiaco il primo, beffardo il secondo. In definitiva al film manca proprio la parte più importante, quella che riguarda la relazione tra il protagonista e la famiglia che Eastwood tratteggia, preferendo starsene al sicuro nel riprendere, magnificamente va detto, le azioni belliche.

AMERICAN SNIPER non è un film da bocciare in toto sia chiaro. Resta pur sempre un’opera che non annoia-al cinema- e ben recitata perché Bradley Cooper, gonfiato a dismisura nei muscoli, è molto credibile nella recitazione così come nulla si può eccepire su Sienna Miller,che ancora una volta dimostra di non essere sul set per semplice caso. Forse il vero problema è che l’opera è firmata da un autore che ha segnato la storia cinematografica dagli Anni’70 a oggi. Nella mia graduatoria personale avevo parlato malino del fin troppo idolatrato Invictus. Per il resto, anche nelle prove considerate meno felici della sua produzione, si intravvedeva sempre la mano del fuoriclasse, l’intuizione improvvisa, il colpo del maestro. Qui di Eastwood ho visto oltre alla capacità di messa in scena oggettiva solo un magnifico finale, secco ma esplicativo. Troppo poco per inserire American Snipers tra le fondamenta del suo cinema.

Condividi!