Da Stoccolma il racconto è amaro

gallery56525.jpg<< Racconti da Stoccolma >> non è un film nuovo nel senso della fattura. Ma è moderno, oltre che molto interessante. Il regista Anders Nilsson applica il pragmatismo nordico e svedese al suo modo di girare. Tre storie di comune violenza privata procedono parallele dissolvendosi le una nelle altre, con il giusto spazio di tempo da dedicare ora alla rappresentazione della famiglia arcaica venuta dal mondo arabo, ora al rapporto tra un marito paranoico e una moglie di successo che cerca di salvare il matrimonio, ora all’intreccio di sopruso psicologico oltre che fisico che due probabili gay devono subìre da un trio di allucinati delinquenti. A differenza dei film di Innarritu la convergenza dei tre racconti avverrà solo alla fine ma in modo del tutto casuale per una fuga generalizzata che forse potrà rappresentare un nuovo inizio. Non è quindi la struttura del film a stupire. Bensì la sceneggiatura che è solida, ferma, capace di scavare ben in profondità nei motivi che scatenano la violenza.Nilsson ci mostra mondi privati nei quali le vittime lottano per il diritto alla vita. Sia essa fisica sia morale. L’episodio del clan familiare che condanna a morte la figlia, rea di avere forse una relazione, è quello che fa più presa. Ricordando da vicino fatti autentici accaduti anche dalle nostre parti, Nilsson entra in un nucleo solo all’apparenza normale. Quello degli emigrati affrancati dalle loro tradizioni ma in realtà ancora legati a schemi tribali, a inumane sovrastrutture mentali. Lo fa con rigore – persino furbizia specificando che si tratta di una famiglia cristiana e non musulmana- , con crudezza, provocando nello spettatore un ribrezzo mai gratuito ma motivato. Tra le mura domestiche si consuma anche il dramma tra la giornalista di successo e il marito. Un uomo insicuro, geloso, psicotico che la picchia, la umilia, la spia, le toglie il respiro. Più pubblico, più legato all’ << action movie>> il terzo nel quale l’apnea giunge per gradi fino a sfociare, per bravura di regista e interpreti, nel senso claustrofobico di non avere via di uscita. Nilsson sa come mantenere costante la propria narrazione. Nel non eccedere negli orpelli, nel mostrarci una società evoluta come la svedese alle prese con peccati privati che solo il coraggio individuale riesce a rendere pubblici. Con il modello Bergman ben recepito, l’autore crea una sinfonia riuscitissima avvalendosi di grandi interpreti. Tra questi anche Bibi Andersson nel ruolo della madre del marito violento.

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