<<Des Hommes et des dieux>> è titolo più efficace di <<Uomini di Dio>> scelto dalla distribuzione italiana per la pellicola che ha vinto il Grand Prix al recente festival di Cannes. Il consiglio di chi scrive rivolto a coloro i quali hanno intenzione di vederlo è di assistere alla versione originale in francese perché il film non solo è un’opera molto importante ma offre prove recitative, soprattutto da parte di Lambert Wilson e di Michael Lonsdale, di sincero trasporto, misura, immedesimazione nei personaggi da far scattare un applauso automatico. Il tema di <<Des hommes et des dieux>> se fosse stato trattato da un regista <<integralista>>, con la smania del messaggio o della visione politica a tutti i costi, avrebbe potuto essere svolto in altro modo. La tentazione, forte, di dividere il mondo in buoni e cattivi, di sfruttare le differenze religiose, di usare cattolicesimo o islamismo come allegoria per prendere una posizione a favore o contraria per rileggere i tempi attuali sarebbe stata un’operazione fin troppo facile e semplice per raccogliere consensi da botteghino, dividere la critica, far parlare <<urlando>> dell’eccidio dei sette monaci di Tibhirine, uno dei misteri non ancora del tutto irrisolti del rapporto tra Francia e Algeria. Invece no: Beauvois, più nella prima che nella seconda parte, non prende alcuna posizione. Descrive, partecipa, cerca di comprendere le ragioni che spinsero i monaci a non accettare compromessi con le parti in campo e di votarsi a una morte certa in nome di una scelta esistenziale e per questo morale, etica, di estrema, mai vocabolo fu più pertinente, coerenza con i motivi che li avevano spinti nel piccolo villaggio algerino.
I FATTI sono noti: il 26 marzo 1996 a quanto dicono le fonti ufficiali un commando di terroristi fa irruzione nel monastero di Tibhirine dove vivono nove frati trappisti. Il sequestro è l’occasione per permettere alla GIA ( Gruppo Islamico Armato) di chiedere un riscatto impossibile. Due mesi dopo, il 30 maggio, le teste di sette monaci, due si sono salvati in modo rocambolesco, vengono ritrovate, cosa che non accade ai loro corpi. Per la Francia è un colpo tremendo:la nazione si ritrova a distanza di decenni a dover fare i conti ancora una volta con il proprio passato coloniale e con il problema dell’Algeria e della guerriglia che imperversa per il controllo dell’Atlas, dove appunto sorge il monastero. Alla versione ufficiale si affianca una diversa: alcuni insinuano il sospetto che il sequestro e la relativa uccisione siano stati organizzati dai servizi segreti algerini per addossare la colpa ai terroristi islamici o addirittura che l’esercito abbia bombardato il monastero. E’anche per il clamore suscitato da <<Des hommes et des dieux>> che il presidente Sarkovsky ha deciso di riaprire un’inchiesta sul caso. Ma questi fatti nel film sono solo tratteggiati, non era questo che interessava a Xavier Beauvois. Il regista fa cinema, la sua lettura è indirizzata all’uomo e alle opzioni dell’individuo, non scivola sullo scontato o sul clamore.
BEAUVOIS svolge la parte iniziale quasi fosse un documentarista. Ci svegliamo in un’alba fredda e soleggiata a Tibhirine: i monaci pregano, studiano. Uno di essi tra un colpo di tosse e l’altro prepara la borsa delle medicine e va verso il proprio ambulatorio nel monastero. Nel villaggio più sotto un giovane sale le scale che portano in alto: raggiunge il medico. Scopriamo che è il suo aiutante, il suo infermiere. Poche parole, pochi gesti. Il <<verismo>> di Beauvois permette allo spettatore di entrare nella pellicola. L’autore ci ha già spiegato dove siamo, cosa è Tibhirine, quale è l’importanza dei monaci per la popolazione locale. Non esistono differenze religiose: il luogo è l’esempio di come cristianesimo e islamismo vadano d’amore e d’accordo. I monaci rappresentano il fulcro della comunità. Sono loro che assistono i malati, sono loro che dispensano i consigli di vita, che parlano con le ragazze dell’amore- splendida la scena in cui Michael Lonsdale fa capire a una giovane di avere avuto un passato diverso- sono loro che aiutano la gente del posto a dialogare con i propri figli emigrati in Francia, a scrivere le lettere, a preparare i documenti. I monaci una volta la settimana espongono i prodotti della terra che coltivano al mercato. Vengono invitati ai battesimi musulmani, si confrontano con i vecchi saggi del luogo. Il rispetto e i sentimenti che una parte nutre per l’altra sono reciproci. E’in questa fase che scopriamo a poco a poco la figura di Christian de Chergé, il priore del monastero, Lambert Wilson. Un uomo silenzioso, che osserva , riflette, studia, dà l’idea di conoscere il Corano e il Vangelo, di comprendere appieno la magia di quella commistione tra differenze, di quella magnifica armonia tra gli uomini che in definitiva è il successo della sua missione esistenziale e della sua scelta di vita. E’un equilibrio quasi <<magico>> che all’improvviso viene scalfito da un fattore esterno, accaduto anche nella realtà. Nel dicembre del 1995 un gruppo di integralisti piomba, qualche chilometro più sotto di Tibhirine, su quattordici operai croati che stanno costruendo infrastrutture. Li uccidono, salvando solo la vita a un musulmano ( la cronaca parla di due superstiti ma questo poco conta) causando lo sconcerto nella popolazione e la dura reazione dell’esercito algerino. E’il momento in cui il film da <<verista>> vira necessariamente verso una sceneggiatura più dialogata, più filmica nel senso stretto del termine. Nei monaci si insinua il dubbio se restare o tornare in Francia oppure scegliere un altro posto d’Africa per proseguire la propria missione. Così vorrebbe il prefetto non così la gente del posto che si sente l’autentica vittima della situazione, sballottata da una parte all’altra.
LA ZONA centrale del film è incentrata proprio sulla natura del dubbio: al di là delle splendide scene-una su tutta l’incontro tra il capo dei terroristi e Lambert Wilson sancito con una stretta di mano e il reciproco rispetto, di assoluto significato perché de Chergé de
cide di non aiutarli e di non rifornirli di medicine- i caratteri differenti dei monaci vengono posti in primo piano. Nessuno è scevro dal porsi la domanda. C’è chi come de Chergé sente il peso della responsabilità e capisce prima degli altri-quando il capo del gruppo armato verrà ucciso dall’esercito- che li porterà a una morte quasi certa; chi come il giardiniere si scopre all’improvviso senza fede, chi professa in modo puro la propria paura, chi come il dottore del monastero, Michael Lonsdale alias frate Luc Dohier, prosegue a curare chiunque, salvando vite ma ponendosi egli stesso la domanda su cosa sia giusto fare e chi come l’anziano (nel reale il più vecchio del gruppo era il dottore) osserva e rimane in silenzio. Su loro veglia la figura di de Chergé che soffre per i dubbi degli altri. Li ascolta la notte implorare l’aiuto di Dio, ne vede la progressiva trasformazione e infine l’adesione assoluta alla scelta che molti anni prima tutti quanti avevano operato. Non c’è nel film di Beauvois alcun flash back su ciò che erano stati in precedenza i monaci. Ma ci offre indizi, ci fa capire che anche loro hanno avuto una vita <<civile>> lontano dal monastero. Uno di loro ricorda un soggiorno con la famiglia in Francia, di quanto si sentisse distante da essa, straniero a casa propria, disinteressato a quella vita e di quanta voglia avesse di ritornare il più presto possibile a Tibhirine. Ci sono le memorie del dottore che scopriamo avere vissuto la seconda guerra mondiale e i campi di concentramento. In tutti loro a poco a poco diventa imprescindibile operare l’unica scelta:non votarsi al suicidio ma proseguire con coerenza in ciò che hanno voluto essere. E’la scena dell’ultima cena, un’autentico convivio conclusivo scandito dalla musica del <<Lago dei cigni>> di Caijkovskij nella quale il pianto di ognuno non è di disperazione ma di adesione: l’uomo, più ancora del monaco, segue il proprio ideale, è aderente a ciò che ha voluto essere e diventare. Non tradisce se stesso. Per arrivarci i monaci hanno dovuto compiere un lungo cammino interiore, dilaniante. In questo inizio della fine Beauvois fa l’occhiolino allo spettatore ma è un momento necessario prima delle ultime scene, del sequestro, e di quell’incedere sulla neve verso una dissolvenza nebbiosa delle figure dove le parole di Christian de Chergé risuonano in sottofondo più come testimonianza di vita che come testamento. <<…La mia vita non ha più valore di un’altra. Non ne ha neanche meno. In ogni caso non ha l’innocenza dell’infanzia. Ho vissuto abbastanza per sapermi complice del male che sembra ahimè prevalere nel mondo e anche di quello che potrebbe colpirmi alla cieca….L’Algeria e l’Islam per me sono un’altra cosa;sono un corpo e un’anima.L’ho proclamato abbastanza, credo, in base a quanto ne ho concretamente ricevuto, ritrovandovi così spesso il filo conduttore del Vangelo imparato sulle ginocchia di mia madre, la mia primissima chiesa, proprio in Algeria e già allora nel rispetto dei credenti musulmani. Evidentemente la mia morte sembrerà dare ragione a quelli che mi hanno rapidamente trattato da ingenuo o da idealista…….Ecco che potrò immergere il mio sguardo in quello del padre per contemplare con lui i suoi figli dell’islam come lui li vede, totalmente illuminati dalla gloria del Cristo, frutti della sua passione, investiti dal dono dello spirito, la cui gioia segreta sarà sempre stabilire la comunione e il ristabilire la somiglianza, giocando con le differenze….>>.
NON C’E’ bisogno di letture complicate per questo film bellissimo e completo, forse appesantito di qualche scena di troppo-si tratta comunque di un piccolo neo che nulla toglie alla sua forza-, dirompente, equilibrato che emoziona e non porta lo spettatore a distrarsi un attimo. La forza del messaggio di de Chergé, il volto intenso di Lambert Wilson, lanciano un messaggio non retorico, non religioso ma etico, il che annulla per davvero qualsiasi differenza di credo. Come ho già sottolineato sarebbe preferibile vedere <<Des hommes et des dieux>> in lingua originale per ammirare la bravura degli attori e una recitazione che preferisce la sottrazione all’accumulo, come nella migliore tradizione di chi sa cosa è lo spettacolo. Nella compostezza di Wilson, Lonsdale, Rabourdin, Laudenbach, Herlin e gli altri c’è anche il merito di una direzione degli attori molto ferma, convinta che procede sempre sulla propria strada senza inciampare. Ripeto, sarebbe stato molto facile creare un altro film, rovinare il suo significato. Xavier Beauvois, quasi fosse un Giorgio Diritti francese, è stato molto bravo a resistere ed è per questo che il suo film è capace di toccare le coscienze in punta di piedi, rinunciando a tesi, controtesi, inchieste e menate varie. E non è un caso che un film del genere sia uscito, ancora una volta, dalla Francia, il cui cinema, volenti o nolenti, resta sempre lo stato dell’arte europeo e forse non solo quello.