DOPO LA VISIONE di Moonlight mi chiedo cosa resterà di questo film tra dieci anni e quale sarà il giudizio della critica nei confronti dei giurati dell’Academy che lo hanno eletto come migliore opera della stagione passata. Si parlerà di una scelta dettata da ragioni che con il cinema c’entrano poco o nulla; questo non è un film da Oscar e non è nemmeno sullo stesso livello qualitativo di almeno tre delle opere che erano in lizza per la statuetta, Manchester by the Sea, Jackie, La La Land. Perché alla fine un confronto deve esserci, non è sufficiente affermare che ogni prodotto artistico vive di luce propria. Quella di Moonlight è abbagliante nella prima parte poi, come un caricatore da cui sono fuoriuscite le pallottole, si spegne con il risultato che il film implode su se stesso, accartocciandosi su una narrazione piatta,sull’uso stereotipato di cose già viste e risapute, concludendosi con una stucchevole, stiracchiata, noiosissima parte finale.L’origine teatrale non lo aiuta di certo, la divisione in tre capitoli separati l’uno dall’altro ne schematizza troppo il soggetto, spezzandone il ritmo e relegando una regia dal probabile grande potenziale- Jenkins è in ogni caso molto bravo- a un lavoro più di maniera che di contenuto. Mancano in Moonlight la forza e il coraggio di andare per davvero a fondo dei problemi esposti.
TUTTO in questo film è in superficie, vuoi per non urtare la sensibilità del pubblico e di una critica spesso bacchettona-l’ottimo Animali Notturni di Tom Ford è stato escluso dal gioco per gli Oscar perché le prime scene avevano scandalizzato chi doveva operare le scelte- vuoi perché costruito a tutti i costi per piacere alle tipologie di pubblico più disparate. Il risultato alla fine è contrastante, con l’impressione che si sia badato più alla forma che a tutto il resto, riprendendo certe atmosfere di film interamente black-penso all’interessante Prossima fermata Fruitvale Station di Ryan Coogler con il quale ci sono similitudini scenografiche o echi del modo di girare dell’amato da Jenkins Wong Kar-wai– sviluppando poco o nulla la tematica gay giocata appunto sull’estetica raffinata, confinando i turbamenti psicologici del protagonista a una serie assai scontata di atteggiamenti da spot. Come se il pudore e la furbizia per fare l’occhiolino a chi è in sala, alla fine abbiano impedito a Jenkins di affrontare il toro per la corna.
E dire che il fim parte bene, in modo abbagliante, suggestivo, profondo, con alcune scene importanti, su tutte quella del battesimo << esistenziale >> nell’acqua, e un perfetto spaccato degli Usa meno conosciuti, quello di Liberty City a Miami, dove la legge è impartita dalla strada e la figura di riferimento del quartiere è il principe-ma dal cuore tenero- degli spacciatori. Chiaro che in questo contesto sociale ognuno parta con l’handicap: o ci si adatta subito alla violenza, che è l’unica forma di linguaggio e di modi conosciuta, o si rischia di di diventare sconfitti tra gli sconfitti come appunto accade al piccolo Chiron, figlio di una madre assente causa dipendenza dalla droga, senza alcun modello maschile in casa e quindi chiuso in se stesso, autoemarginato e oggetto di scherno e di soprusi da parte dei coetanei. Il primo capitolo, tutto giocato sull’incontro tra figlio senza padre e padre senza figlio, lo spacciatore, è perfetto, bello, l’unico per il quale vale la pena di vedere il film con interesse. Anche perchè la relazione tra i due è interessante per come Jenkins e l’autore del soggetto e testo teatrale Tarell Alvin McCraney riescono a entrare nelle pieghe delle personalità dei protagonisti: la figura dello spacciatore, interpretato dal bravissimo Mahershala Ali, è quella che traina l’intero primo capitolo. È complessa, variegata. Il controllo dello spaccio è quasi un lavoro come un altro, un modo per costruirsi un’apparente agiatezza. Nel piccolo Chiron l’adulto Juan rivede anche se stesso da bimbo e il suo sentimento è quello di proteggerlo e di metterlo a confronto con quella che sarà la sua vita futura. Dall’altra parte Chiron, da applausi l’interpretazione del dodicenne Alex R. Hibbert, nello spacciatore trova il rifugio ma anche la consapevolezza di avere valori differenti. Il suo problema è di non riuscire a esprimerli, di essere bloccato, imprigionato dall’ambiente che lo circonda. Ma già in questo capitolo iniziale appare fin troppo schematico il dubbio che viene posto sulla sessualità potenziale del ragazzino. Non è che uno sia gay perché la madre gli ha urlato (letteralmente) frocio. È da questo momento che il film perde a poco a poco consistenza per franare nei successivi due capitoli dove troviamo dapprima Chiron adolescente preso di mira dalla violenza nelle aule della scuola superiore, dove scopre il piacere fisico con il migliore amico e poi uomo trasformatosi in un marcantonio tutto muscoli che ripercorre ad Atlanta in Georgia le orme dell’unico esempio << positivo >> incontrato nella vita, quello dello spacciatore di buon livello. E qui ci sarà la riunificazione con << l'unico uomo che mi abbia mai toccato >>, esteriormente impeccabile per l’uso delle luci, ma assai noioso nella costruzione e dal finale scontato. Delicato certo ma ben poco d’impatto, perchè quello che era stato il lavoro iniziale sulla psicologia del protagonista nel primo capitolo, va bellamente a farsi benedire, rinunciando ad imprimere al film il senso di nuovo battesimo esistenziale di cui il personaggio di Chiron e del suo amico Kevin dovrebbero essere i portatori.
MOONLIGHT con il passare delle scene diventa banale; perde persino i contenuti di ricerca sociale sull’ambiente- Liberty City è il simbolo dell’altra faccia degli Usa, la città ghetto dove vige ancora l’analfabetismo e che non è molto dissimile dai tanti quartieri che si trovano viaggiando, mettiamo per sbaglio, su qualche strada laterale della Florida-, si trasforma in una semplice storia di amore- o desiderio- più da romanzo d’appendice che da film importante. E a poco servono la prova dell’intero cast o la raffinatezza dell’impianto scenico e della regia per salvarlo da una mediocrità che porta chi osserva a perdere il coinvolgimento, a chiedersi cosa ci sia di così importante per far sì che questo sia un film da Oscar.È ottima la prova del cast, dove oltre ai protagonisti del primo capitolo si mettono particolarmente in luce Naomie Harris, la madre e Trevante Rohodes, Chiron adulto così come sono azzeccate le musiche di Nicholas Britell e la fotografia di James Laxton. Ma tutto il resto è troppo debole, fragile per un film che ho il sentore abbia vinto l’Oscar della sopravvalutazione.