Silvio Soldini è un regista concreto. << Giorni e nuvole>>,il suo ultimo lavoro presentato al festival di Roma, entra a far parte di quella idea di cinema che in www.bloggers.it/schittone ho sempre appoggiato. Un cinema senza troppi fronzoli che cerca di spiegare il presente partendo da un piccolo fatto privato. Questa volta il regista italo-ticinese mette in primo pano la condizione di precarietà esistenziale che scaturisce dalla perdita del lavoro e che fatalmente ha una conseguenza: il protagonista-il sempre costante nella propria bravura Antonio Albanese- perde il senso di appartenenza al proprio ambiente, si arrovella su ciò che è stato e che era, non riuscendo più a trovare la lucidità necessaria per reagire. Il film di Soldini è importante per molti fattori. Il primo è che mette in scena una precarietà che al di là degli slogan politici di questi tempi è fattore di gravità non tanto per i giovani quanto per la generazione dei cinquantenni che all’improvviso si ritrovano con il nulla tra le mani, un passato alle spalle fatto di benessere e di tranquillità economica e un futuro di fronte che semplicemente non è immaginabile, programmabile, non si può intuire. E’ un po’ lo stesso discorso che in narrativa ha reso molto bene Tullio Avoledo nel suo << Breve storia di lunghi tradimenti >>. Dalla perdita dell’unica autentica certezza dell’esistenza, il lavoro appunto, inizia una lunga discesa in quel tunnel che porta al privato, agli affetti, alla visione stessa della vita. Tutto appare disgregato, frantumato e coinvolge la famiglia, in << Giorni e nuvole >> sintetizzate dalla figura della moglie Margherita Buy e dalla figlia Alba Caterina Rohrwacher, divise da generazioni ma capaci la prima di reinventarsi un lavoro per sbarcare il lunario e la seconda di realizzarsi seguendo modelli agli antipodi di quelli dei genitori. Il secondo punto a favore del film di Soldini è la capacità dell’autore di starsene alla larga dal melodramma, dalla sdolcinatura così come dalla denuncia sociale facile-facile. Per alcuni critici la figura di Albanese è al limite dell’autolesionismo, perché il protagonista è vinto moralmente, non riesce a lottare, non riesce-come alcuni suoi ex operai- a modificarei l’ esistenza. Su questo non sono d’accordo ed è proprio la sceneggiatura a mettere nella prima parte tra le labbra di una straordinaria Buy-qui nella sua migliore interpretazione di sempre-la risposta logica, crudele fin che si vuole, ma molto concreta, sulla differenza che esiste tra un professionista e un operaio. Così Soldini ci mostra un ritratto italiano autentico, la storia di una generazione cresciuta e prosperata negli anni buoni e ritovatasi all’improvviso senza alcun punto di riferimento perchè per i cinquantenni il lavoro è sempre stato l’aspetto fondamentale della vita. Bisogna esserci passati dal travaglio di Antonio Albanese per comprendere appieno il film, per viverlo in tutta la sua profondità. Quei tic, quello sguardo perduto nel vuoto e allo stesso tempo allucinato, la stanchezza psicologica che ti porta a non lottare, ad arrenderti o a optare per scelte provvisoriamente folli-si mette per un giorno a girare per la città come scooterista del Pony Express- sono un marchio di chi con la propria attività professionale ha visto crollare tutto quanto. Bravo Soldini. Solo un grande maestro sarebbe stato in grado di rendere l’ apnea esistenziale, scandita da una quiescenza eterna, del proprio protagonista. Soldini ci è riuscito, a dimostrazione che anche in Italia se si ha il coraggio di puntare su soggetti legati all’osservazione della realtà, si può fare cinema. Quello di qualità, che non tramonta.