Quell’abisso di dolore tra Boston e il mare di Manchester che fa grande Casey Affleck

MANCHESTER BY THE SEA di Kenneth Lonergan è uno di quei film che si incollano addosso allo spettatore. È costruito con sapienza di scrittura e sceneggiatura da massimo voto in pagella; recitato in modo meraviglioso dal suo cast, con Casey Affleck che lascia sbalorditi per la cifra intensa, la delicatezza con cui affronta un personaggio di enorme difficoltà. Ed è infine un’opera di una profondità assoluta che il suo autore riesce a trasmettere con garbo raro, precisione, grande tecnica e il distacco necessario per esaltare quel terzo occhio che tutto vede e che tutto può spiegare. Perché la trama, se fosse stata usata male, avrebbe avuto i numeri per comprarsi con facilità la platea e il relativo plauso, forzando sugli aspetti più palesi del racconto. Ma Lonergan, che tra gli altri ha sceneggiato Gangs of New York, sta lontano dalla tentazione. Andando per sottrazione, giocando con le pause del recitato e con una perfetta scelta dei tempi, dando spazio all’immagine mai fine a se stessa, riempie il suo film in altro modo, raggiungendo ben altro risultato e consegnandoci un gioiello.

È strano quanto la visione di un film possa portarti a ricordare opere che per tema trattato c’entrano come cavoli a merenda. Mentre vivevo con tutto me stesso Manchester by the Sea la mente è andata a ritroso arrivando a far coincidere l’atmosfera di questa con Nebraska di Alexander Payne, non per nulla uno dei film degli ultimi anni che ho maggiormente amato. Soggetti differenti eppure modo di edificare la storia quasi coincidente: mai una parola di troppo, spoliazione continua, silenzi assordanti ma intensità rara. Nulla di ridondante, minimalismo non artificiale e ben poco radical chic. Da grandi narratori come appunto sono Lonergan e Payne.

Anche in Manchester By The Sea c’è un viaggio. E non è soltanto quello che il personaggio di Affleck compie da Boston a Manchester nel Massachusetts per prendersi cura del nipote che gli è stato affidato dal fratello pescatore morto per arresto cardiaco. È piuttosto un percorso di introspezione che mette a confronto il protagonista con il proprio passato: luoghi, persone, accadimenti, tragedie. Si crea così un incontro tra chi, come il nipote, ha tutta la vita davanti ma è orfano quasi per destino e chi è stato preso a schiaffi dall’esistenza e si muove per il mondo oppresso da un dolore inconsolabile, dove il senso di colpa impedisce la cancellazione di un dramma, dove non si giunge mai a far pace con il ricordo, con il rimorso, con il rimpianto. Lee Chandler, Casey Affleck, è un uomo al quale la vita ha levato tutto. La sua è pura sopravvivenza. È imprigionato da sbarre mentali che lui stesso provvede a lucidare, perché l’isolarsi da tutto il resto è l’unico modo per cercare di proseguire. L’unica forma di relazione è il lavoro da portiere di stabili. Tutto il resto è bandito. È un’espiazione autoinflitta perché il peso del dolore che si porta appresso è assoluto.

LA BRAVURA di Kenneth Lonergan sta nel disseminare ogni scena di punti interrogativi. Chi è Lee Chandler? Cosa si cela dentro di lui? Perché all’improvviso, mentre trascorre le serate bevendo birra da solo nei pub si scatena la sua rabbia furiosa? Perché tiene alla larga le donne che lo corteggiano? Perché non ama Manchester, il luogo dove è nato, cresciuto? Perché si è allontanato? Lo spettatore lo saprà ma solo a tempo debito. Il congegno messo in piedi da Lonergan regge alla grande, perché incrocia i piani temporali. Il film inizia con una scena del passato, prosegue nel presente, torna indietro e via come in un romanzo di Patrick Modiano. Solo che in Manchester By The Sea non è il narratore che ricerca ciò che è stato prima; è il regista che usa la tecnica per tenere desta l’attenzione, per incuriosire, per far penetrare lo spettatore in quel gorgo che è la disperazione esistenziale del protagonista. Quando tutto ciò verrà svelato, anche il rapporto tra zio e nipote sarà visto sotto una luce diversa. D’altronde i due non sono uniti solo da un legame, fortissimo, di sangue: la realtà ci dice che si confrontano due lutti, due modi diversi di tenere in vita chi non c’è più. Quello della reazione giovanile che cerca di non subìre i drammi esistenziali e quello di chi, per la prima volta dopo anni, è costretto a guardare in faccia tutto ciò da cui fuggiva. Sono personaggi paralleli anche negli improvvisi accadimenti, il ritorno di una madre scappata di casa e di una moglie per esempio. Alla fine per Lee e Patrick Chandler non esisterà alcuna soluzione liberatoria. È un finale sospeso, bellissimo, che ci propone Lonergan: non si è tra le scene di un film ma della vita stessa, che non ha bisogno di parole. E ci sarà almeno una certezza: del rispetto del dolore altrui e di un nuovo percorso che in ogni caso non dividerà mai lo zio dal nipote e viceversa. Era così in passato e lo sarà nel futuro.

Il film è splendido e persino divertente, solcato da ironia fin dalle prime scene, da battute. L’entrata in scena del personaggio di Patrick, il nipote, è l’occasione per Lonergan di alleggerire il peso del dramma. Lo stratagemma gli serve per creare il contrasto tra i silenzi di zio Lee e le reazioni giovanili di Patrick, impegnato tra la scuola, l’hockey, il basket, la band e due fidanzate. È un altro fattore tra i molti che ne stanno decretando il successo al botteghino. Il contenitore, ovvero la struttura scenografica e fotografica, predilige i colori sbaditi, leggermente dissolti, pallidi in paesaggi immersi nella luce a volte fredda dell’Essex statunitense, dove tutto, dalla neve alla calma del mare sembra racchiudere il subbuglio interiore di protagonisti che hanno sempre freddo e che sono alla ricerca di calore soprattutto metaforico.

CASEY AFFLECK merita un discorso a parte: la sua interpretazione di Lee Chandler è geniale e se esistesse giustizia gli varrebbe di diritto l’Oscar per il quale è stato nominato. Impressiona il modo con cui si muove da una scena all’altra, su come esprime senza un’esagerazione il tormento del suo personaggio. Anche Affleck come il regista usa il terzo occhio. Ha lo sguardo vigile, attento, i pugni stretti per spegnere le emozioni e le mani libere per sfogare la rabbia. Investe lo spettatore della sua tragedia privata, gli impedisce di piangere e di affrontare il dramma con il cuore a pezzi ma la ragione intatta. Lee Chandler non ha nulla di eroico; non è bello, a volte è goffo e ingobbito; parla poco, non fa scene madri eppure diventa una presenza impossibile da allontanare. Casey Affleck riesce nell’impresa di trasformarsi non in un attore ma in ognuno di noi, nel nostro specchio di uomini comuni divorati da incubi che vanno taciuti restando incancellabili. Non ci sono termini se non grandioso per definire il suo lavoro. Ottima la prova di tutti gli altri. Lucas Hedges, figlio d’arte visto anche in Moonrise Kingdom e Budapest Hotel di Wes Anderson, oltre a L’Amore secondo Dan, girato da suo padre, e tanti altri, rivaleggia in bravura con Affleck. La sua è una parte non meno leggera e anche per lui alla fine è giunta una nomination come attore non protagonista. Più defilata quella a cui dà vita Michelle Williams mentre spicca per simpatia Kyle Chandler che si ritrova, alla faccia dell’omonomia, a impersonare Joe Chandler, il fratello di Affleck. Sono altre qualità che vanno ad aggiungersi alla riuscita di uno dei film migliori dell’anno. Poetico. Reale. Dolce. Mai ostico, a dimostrazione che i film importanti sono quelli scritti meglio, dove la sceneggiatura è la base per dare all’immagine un senso compiuto.

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