CI SONO film inusuali in giro per il mondo. All’apparenza semplici nello svolgimento, complessi nei fili mentali e negli approfondimenti che li sorreggono, difficoltosi da seguire perché scorrono con lentezza progressiva. << Poetry >> a Cannes 2010 ha vinto il premio per la migliore sceneggiatura alla conclusione di una serie di verdetti ben poco scontati e passibili di qualche opinione contraria e comunque <<sbilanciati>> a favore della cinematografia orientale, vedasi la Palma d’Oro assegnata al thailandese << Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti >>e a sfavore, per esempio, del film di Mike Leigh <<Another Year>> che più di ogni altro avrebbe meritato il riconoscimento del migliore. Ma i gusti dipendono da mille fattori e sensibilità, da accordi sottotraccia; la bellezza dell’arte in genere è che non esiste nulla di bello oggettivo e che qualsiasi opera, letteraria, cinematografica, pittorica e via dicendo può essere giudicata secondo ottiche ed esperienze individuali. Tenendo presente questo, credo che <<Poetry >> sia un film destinato a non scatenare dibattiti violenti, divisioni come è accaduto con << Lo zio Boonmee etc>> tra coloro che lo hanno giudicato inguardabile e difficile e chi, come ad esempio chi scrive, lo ha amato tantissimo, assumendolo di <<pelle e di pancia>>. Ecco in << Poetry>> manca, secondo me, proprio questa acquisizione emotiva da parte dello spettatore o forse sono io che diffidando dei poeti <<poetanti>> non sono riuscito a calarmi totalmente nella pellicola. Ottima, sia chiaro, ma priva di quell’abbraccio caldo o di quei pugni nello stomaco che fanno di un buon film un capolavoro, cosa che, a dispetto di molti recensori, << Poetry >> non è.LEE CHANG -DONG è un autore fondamentale per il cinema della Corea del Sud. Ha girato cose importanti, da Green Fish a Oasis : non fa cinema alla maniera di Kim Ki -duk né tanto meno di Park Chan-Wook; è molto differente anche da Joon-ho- Boong, l’autore di << Memories of murder>>. Scava nelle pieghe di una nazione che conosce più che bene- è stato Ministro dellla Cultura dal 2002 al 2004- in modo molto particolare, usando un occhio analitico e il più possibile distaccato dalle cose. Forse troppo, ed è qui che si cela la grande contraddizione del suo << Poetry>>. La trama è bella: c’è una sessantaseienne che accudisce il nipote, vive del sussidio statale e di un lavoro di tre ore alla settimana come domestica di un anziano colpito da ictus. Il suo aspetto è elegante, il suo andare per il mondo ci mostra la preoccupazione interiore per uno stato di salute che potrebbe volgere al peggio, non ricorda alcune semplici parole, l’occhio è smarrito di fronte al << mondo nuovo>> con il quale è costretta a convivere ma possiede la capacità del <<fanciullo d’esperienza>> di cercare un’esistenza piena e curiosa, per comprendere sé stessa e chi la circonda. E’per questo che si iscrive a un corso di poesia, proprio poco prima di sapere che suo nipote di quattordici anni è coinvolto in uno stupro di gruppo che ha portato al suicidio di una ragazzina. Con il procedere della storia affronterà la bruttura, l’insensibilità e il menefreghismo di una nazione che ha perduto la sua base etica e cristiana di pari passo con l’evolversi della diagnosi delll’Alzheimer e con la rivelazione della poesia come ultima e suprema risposta per decifrare la vita in tempi in cui la poesia stessa sta morendo. La riflessione di Lee Chang-dong è molto profonda, velata da un senso malinconico che non perde mai di vista l’apparente <<essere fuori dal tempo>> della protagonista Mija- la più importante attrice coreana- Yun Junghee che invece è colei che più di ogni altro comprende l’essenziale delle cose e lo dimostrerà in un finale struggente, importante, ben riuscito, di cui non sveliamo nulla per rispetto a chi ancora deve guardarlo, proprio nell’attimo in cui il suo volto non riempirà più lo schermo. LEE CHANG-dong non fa un film monocorde: usa spesso l’ironia, sfrutta lo sberleffo in modo soft, riesce con equilibrio a muoversi su quattro piani differenti di racconto, la donna, la sua malattia accennata ma presente come un fantasma, il poetare e la vicenda di cronaca nera. Eppure non accelera mai, non preme né sul dramma, né sullo sberleffo, resta a metà del guado in un’opera che rischia di essere un ottimo esercizio di stile ma che, considerando il titolo, arriva algida e troppo lunga in sala, profonda sì ma misurata proprio quando deve affrontare un tema, la poesia, che di misura ha ben poco per sua costituzione intrinseca. E alla fine ci viene da pensare che senza la interpretazione, questa sì da premiare, di Yun Junghee, << Poetry>> diventerebbe un normalissimo film non troppo riuscito e al di là di quanto sostengono in molti, nemmeno forte e potente. Ma ognuno ha i propri gusti e questa volta i miei non combaciano con altri.