IL FATTO che tra i protagonisti di Mustang ci sia Ayberk Pekcan– l’autista de Il Regno d’Inverno di Ceylan-è già un buon biglietto da visita per il film che dovrà rappresentare la Francia all’Oscar per il miglior film straniero. Non è la sola arma a disposizione dell’opera prima della regista turca ma residente in Francia Deniz Gamze Erguven. C’è soprattutto una bella riflessione su quale sia la condizione femminile nella Turchia del XXI secolo senza però il difetto di voler tralasciare l’aspetto cinematografico a favore di quello troppo spesso programmatico e quindi poco efficace del manifesto. Anzi in Mustang a trionfare è proprio il cinema, il modo con cui viene costruita la storia e la capacità del giovane autore di parlare al proprio pubblico offrendo un film spumeggiante, simpatico, molto profondo e ben costruito nel soggetto. Non c’è retorica, non c’è pesantezza. Piuttosto briosità che nemmeno qualche lungaggine che sarebbe bastato asciugare in sede di montaggio riesce a scalfire. È uno dei motivi per i quali Mustang è premiato al botteghino, dal pubblico, dal passa parola e non soltanto dalla critica.
SIAMO in un villaggio poco distante da Trabzon (Trebisonda) nella parte nord orientale della Turchia. Cinque sorelle orfane vivono con nonna e zio. Dalla maggiore alla più piccola esprimono la voglia di un’esistenza al passo con i tempi;innocente e curiosa, allegra e spensierata. Festeggiano il giorno della chiusura scolastica giocando con i propri compagni nell’acqua del Mar Nero. È un divertimento come un altro ma non in una nazione dove modernità,stereotipi religiosi, apparenza e contenuto si uniscono e si dividono creando una fiera della contraddizione che spesso il cinema turco, da Ceylan ad Akin, ha messo in scena. Un gioco innocente, quindi, diventa agli occhi di chi osserva-la solita beghina di paese- qualcosa di contrario alla norma. Da questo inizia un racconto pimpante sulla lotta e sui soprusi che le cinque sorelle dovranno fare e subire per arrivare alla propria determinazione e indipendenza.
NON È UN MANIFESTO femminista bensi uno spaccato di vita ordinaria, di ansia di libertà, di visioni differenti di come si debba impostare il proprio destino e la propria esistenza. Ciò che per qualsiasi ragazza occidentale appare normale e scontato per le cinque eroine di Mustang diventa una montagna da scalare. E più la storia procede, maggiori sono i soprusi che le ragazze devono subìre. La casa dove abitano a poco a poco si trasforma in un’autentica prigione. Ad ogni tentativo di condurre una vita normale corrisponde la reazione contraria di nonna e zio. Viene imposto l’abbigliamento, viene vietata qualsiasi forma di espressione che non sia quella prevista dalla tradizione. Vietati il telefono, il computer, i mezzi per comunicare all’esterno non previsti dall’etica che a loro volta le donne avevano subìto ai propri tempi e da cui ormai sono soggiogate. È ciò che pensano gli altri a determinare il destino; così si creano matrimoni combinati onde evitare di essere messi all’indice per eventuali pruriti della carne; così alle ragazze vengono impartite lezioni di cucina e di rassetto della casa nel pieno solco di una tradizione che per le cinque adolescenti del film è del tutto anacronistica e fuori dal tempo.
NEMMENO il dramma scalfirà il modus operandi della cappa familiare, dove lo zio censore non è un angelo e dove la nonna è vittima consapevole di un sistema e allo stesso tempo la sua più fedele osservante. Sono ingredienti che avrebbero potuto rendere Mustang un film di difficile digestione. Invece Erguven opta per l’alleggerimento delle situazioni attraverso l’ironia, armonizzando benissimo gli aspetti tragici con una visione disincantata e spiritosa che le consente di esprimere la propria denuncia sulle ali di una leggerezza rara. Il film infatti è giocato tutto sull’equilibrio tra l’aspetto drammatico e quello della commedia che rendono la visione piacevole e divertente dalla prima all’ultima scena senza negare allo spettatore momenti di riflessione.
LA TENSIONE cresce con il passare del tempo perché il contrasto tra chi ormai è prigioniero del proprio destino- la nonna- e chi invece non ci sta-le cinque ragazze e soprattutto la più piccola, autentico motore di Mustang e non solo la sua voce narrante-è trattato con una vitalità che non lascia mai spazio alla noia. Non c’è un arenarsi sugli eventi tristi, dove persino la morte fa capolino. Si preferisce sempre sfruttare l’elemento anche comico-la fuga delle cinque per andare a tifare una partita del Trabzonspor ne è l’emblema più appariscente- senza mai cadere nel tranello di una sceneggiatura a tema. L’unico appunto si può muovere ad alcune fasi di stanca, anche se di breve durata, nelle quali la regista da l’impressione di volere preparare chi osserva a ciò che accadrà in seguito. Ma anche questo peccato, di poco conto, viene compensato dalla bravura di tutti quanti e in particolare delle cinque ragazzine, la più piccola delle quali, Gunes Sensoy è il simbolo di questa forza del non arrendersi e soprattutto di voler cambiare lo stato delle cose.
RISPETTO agli altri autori turchi citati, soprattutto l’amato (dal sottoscritto) Nuri Bilge Ceylan in Mustang prevale sempre la visione ottimistica sul futuro. La ragazzina viene presa da Erguven come emblema di una speranza che in ogni caso dovrà passare attraverso mille battaglie per liberarsi dalle catene di una cultura al bivio dove il contemporaneo, sotto la patina di una Turchia aperta e elastica in grado di adattare le tradizioni a un mondo che si evolve, trova muri invalicabili negli usi e consumi mentali delle comunità più lontane dalla metropoli Istanbul. Se in Ceylan alla fine è quasi sempre l’impotenza dell’individuo di fronte allo status quo a chiudere ogni discorso, in Deniz Gamze Erguven appare forte la potente vitalità femminile. Più che una certezza il finale di Mustang ci offre un sogno, un desiderio, la consapevolezza che per non restare una terra di mezzo la Turchia ha bisogno di donne non soggiogate e non vittime sacrificali e fin troppo comode di un sistema che soffoca e che nel loro caso si alimenta per lasciare tutto come è sempre stato.