Loveless, l’umanità di Zvyagintsev cieca, egoista, impotente in una terra di confine

C’è una sorta di affascinante e inquietante correlazione tra la vastità delle terre bagnate dal mare di Barents e la glaciale metropoli che contiene gli umani di Loveless, il film più recente di quel grande autore che è Andrey Zvyagintsev. Nel territorio da fine del mondo di Leviathan si consumava il dramma del rapporto tra giustizia e individuo, dio e uomo; l’impotenza del singolo contro il potere del leviatano ci mostrava un mondo in frantumi, dove anche gli ultimi valori erano scomparsi tra le onde di quel mare freddo, inospitale e allo stesso tempo bellissimo allo sguardo. Il film era anche la metafora di una nazione in cambiamento, una sciabolata inferta nelle viscere di un sistema da parte di un regista che fino ad oggi non ha mai sbagliato un’opera.

In Loveless l’aspetto politico è più velato, meno diretto, travestito ma il pessimismo di fondo resta, perché Zvyagintsev e il suo fedele cosceneggiatore Oleg Negin non rinunciano a mettere in scena un campionario di persone spregevoli, chiuse nei loro egoismi, incapaci di guardare oltre, di andare al di là. I genitori del film che ha vinto il premio della Giuria al festival di Cannes 2017 sono probabilmente la coppia più detestabile, odiosa vista al cinema negli ultimi anni. Sono lo specchio di una nazione che progressivamente sta perdendo le proprie radici, che è troppo indaffarata per accorgersi di ciò che lei stessa ha creato. Così i personaggi di Zhenya e Boris, presi dai rispettivi egoismi di genitori in fase di separazione, dimenticano che nella loro vita esiste anche un figlio: la fuga del ragazzino, la conseguente disperata ricerca dello scomparso si trasformano quindi in uno dei viaggi più stimolanti che gli spettatori possano compiere all’interno di un film. Loveless non è da meno di Leviathan: sfiora il capolavoro. Nulla è gratuito nell’opera di Zvyagintsev, tutto ha un senso, anche la scena in apparenza più anonima. Come in Leviathan il contenitore assume un’importanza fondamentale. Qui l’enorme distanza tra uomo e paesaggio è resa da una metropoli che appare simulacro di sé stessa: edifici abbandonati, calcinacci da pestare, immense parabole satellitari, silenzio e rumori improvvisi, luce abbagliante oltre la quale, fin dall’incipit, si intravvede come se fosse avvolta dalla nebbia la sagoma minacciosa dei palazzi della città. Ci sono appartamenti da abbandonare e occupare, stanze da distruggere e riarredare, scomparsi da ritrovare.Anche in Loveless gli uomini diventano piccoli, marionette mosse a girare attorno senza arrivare mai a una verità.

L’UMANITÀ di Zvyagintsev è come se si trovasse in una terra di confine: non è lo Stalker di Tarkovskji, non attraversa la zona ma è in essa stessa. È dentro la vita ma di questa sembra aver perduto la base etica, non ha più riferimenti. È attraversata impotente dalla storia, il quotidiano è una serie di bisogni da appagare,il comunicare è un mostrarsi in un selfie o digitare sulla tastiera di un cellulare. Il cambiamento diventa pura illusione, brusco ritorno alla realtà, alla fine dei sogni, alla sconfitta. L’egoismo in cui rinchiudersi diventa quasi un’arma per sopravvivere in piena coscienza di questa immutabilità. Perché appunto il mondo di Loveless è senza amore e solo il rimorso è l’unico sprazzo di umanità che è rimasto ai suoi due protagonisti. Netto è lo stacco tra marito e moglie e coloro che li accompagnano nel loro viaggio alla ricerca del figlio. Una sorta di divisione assoluta: i volontari che aiutano i genitori a ritrovare i propri bimbi sono individui che agiscono al di fuori del sistema, gli unici personaggi del film che sembrano essere calati consapevolmente nella zona perché restando appunto fuori da questo tempo hanno la capacità di osservarlo, di gestirlo. Zvyagintsev non boccia, come era avvenuto in Leviathan tutta l’umanità. Salva i testimoni, assolve chi guarda in faccia la realtà senza sconti e chi si adopera per modificarla, pur sapendo che la sconfitta è dietro l’angolo. Mette a confronto il nuovo uomo russo e l’allegoria del vecchio, la cui unione, fuori dai significati squisitamente politici, è l’unico antidoto per superare incomunicabilità, narcisismi; per recuperare un brandello di senso esistenziale.

FILM strepitoso, recitato in modo impeccabile da Maryana Spivak e Alexey Rozin, accanto ai quali si muovono altri splendidi attori, Loveless nasce, come ha dichiarato il suo autore alla conferenza stampa di Cannes, da una sinossi di appena tre pagine. Da quella Zvyagintsev e Negin hanno costruito un film che non fa sconti, che crea apnea, dove i molti silenzi hanno significati che pesano come macigni e le parole mai escono a caso dalle labbra dei protagonisti. Ballardiano nelle atmosfere-i palazzi minacciosi sembrano quelli di Regno a Venire– spietato come un racconto del miglior Michel Faber-una scena ricorda l’incipit di una celebre novella contenuta ne I gemelli Fahrenheit– il film usa ancora una volta in modo magistrale la partitura musicale: in Leviathan era quella tratta da Akhnaten di Philipp Glass; qui viene dato spazio all’insistenza delle note dei compositori Evgueni e Sacha Galperine: 11 Cycles of E prosegue nello stesso filone postfuturistico. È un altro colpo, insistente, piazzato da Zvyagintsev allo spettatore di uno dei film più importanti della stagione.

Condividi!