L’occhio che dice

CI SONO casi cinematografici che nascono e si propagano per qualità più che per il battage pubblicitario ad essi legati. Fu così per lo splendido “>Il vento fa il suo giro diGiorgio Diritti ,accadrà la stessa cosa per Le quattro volte del Michelangelo Frammartino applauditissimo all’ultima edizione della Quinzaine di Cannes.Sia chiaro non siamo di fronte a un film tradizionale: Le quattro volte è frutto di un cinema non parlato, è cinema mostrato, nel quale però ogni immagine ha una sua valenza precisa, è soggetto e sceneggiatura essa stessa, è l’occhio che guarda, penetra, scava nell’esistenza di un piccolo centro della Calabria appenninica , Alessandria del Carretto paesino arroccato in provincia di Cosenza. Qualcuno lo potrebbe inserire nel genere del documentario ma anche questo non è pertinente: Le quattro volte non fa parte del settore, esce da quello schema come non entra in altri. Frammartino non è figlio di Olmi è diverso da< Diritti può ricordare con i suoi piani sequenzaJean Marie Straub . Di sicuro Frammartino ha il senso del tempo, della sua scansione, è quasi orientale nel rispettare il susseguirsi del giorno e della notte, delle varie stagioni nelle quali si svolgono i fatti della sua opera. C’è un occhio che osserva: è quello del regista che diventa il nostro dopo pochi secondi, appena compresa la non necessità di ascoltare parole, l’ apparente inutilità di un canovaccio, di una trama, di una concessione allo spettacolo. E’questa la magia di Le quattro volte<; di lasciar perdere il superfluo, di rendere l'essenza, di raccontarci una storia senza l'ausilio di nient'altro che della camera per spiegarci la vita e la morte. Le quattro volte nascono dalle parole di Pitagora: all'interno di ogni individuo esistono differenti tipi di vita, animale, vegetale, minerale, razionale. E questo è ciò che il film ci offre. Sembra un documentario, non lo è. I quattro episodi proseguono senza soluzione di continuità, iniziano laddove il precedente si conclude, sono legati l'uno all'altro, non potrebbero vivere distaccati. Un pastore ammalato cerca di curarsi con la polvere raccolta dalla perpetua della chiesa, pascola il proprio gregge di capre, muore all'indomani del momento in cui si accorge di avere perduto la dose di polvere quotidiana, quando ormai è troppo tardi per trovare il portone della chiesa aperto. E'il primo episodio, il più surreale, forse il più divertente grazie alle trovare di una sceneggiatura che elimina il parlato ed elegge la natura protagonista. Lumache escono da una pentola nelle quali erano state rinchiuse, forzando il coperchio tenuto premuto da un grosso sasso. Il vecchio lancia il sasso per strada. Il cane del gregge viene scacciato e come per vendetta addenta lo stesso sasso, usato nel frattempo per bloccare un motocarro fermo in salita, consentendo al gregge stesso di liberarsi e di invadere la casa del pastore ormai sul letto di morte. La cinepresa segue gli ultimi istanti della tumulazione, lo schermo diventa buio alla posa della lapide e si illumina di nuovo per mostrarci una capra che nasce. La seguiamo nei suoi primi vagiti, nei giochi con gli altri cuccioli, nel primo pascolo dove si perderà e resterà da sola, trovando riparo sotto una conifera alta e larga, un abete bianco, fino a quando non cambierà il tempo. Altro buio, altra perdita, altra fine. Come in una filastrocca da raccontare ai bimbi attorno al fuoco- immagine cara a John Milius– l’albero si ergerà in tutto il suo splendore a primavera, verrà tagliato, portato in paese, innalzato per diventare l’albero della cuccagna e poi ceduto a coloro i quali già nel primo episodio si vedevano trasportare sul moto carro del legname. Questi lo segano, lo portano dabbasso, trasformandolo in carbone. Sarà quello che riscalderà il paese d’inverno. Il mondo arcaico mostrato da Frammartino con dovizia di particolari-le scene del procedimento della carbonaia sono istruttive e lasciano a bocca aperta- non è figlio di un’operazione nostalgica o di un semplice ritorno alla semplicità delle cose.E’ piuttosto l’occasione migliore che il regista aveva per offrire il proprio personale punto di vista sulla scansione del tempo e sull’essenza della vita. Un mezzo e non un fine. Il contenitore dentro il quale Frammartino ci conduce è una natura nella quale nulla proviene dal caso, dove l’uomo, gli animali, i minerali, i vegetali sono legati, consequenziali, non esisterebbe l’uno senza l’altro, ciò che conclude il proprio ciclo ne ricrea un altro, il buio della fine è la necessità per un nuovo inizio e viceversa. Così Le quattro volte,ribaltando Artaud,ci dice molto senza mai parlare, dimostrando il potere del cinema fuori dall’usuale, un cinema che arriva alla verità senza salti nel buio o inutili intellettualismi, ma con la forza della pura immagine e del lento incedere della clessidra.

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