Benvenuti nel magico mondo dei film che non sono mai stati distribuiti nelle sale cinematografiche italiane. Per trovarli bisogna armarsi di santa pazienza, rivolgersi a pusher di dvd, andare in una videoteca o imbattersi per caso nel sito di chi il film lo ha prodotto. Per il gioiello Last Flag Flying ho benedetto per la milionesima volta Amazon che oltre ad alcune tra le mie serie del cuore-due su tutte: la geniale per qualità di scrittura, inventiva, originalità e recitazione Patriot e la fantasmagorica quanto ubriacante e quasi lynchiana per messa in scena American Gods…senza tralasciare The Man of the High Castle, esempio di come la << serie >> possa tramutare un libro in autentico romanzo di appendice, prendendo dal primo solo lo spunto per poi viaggiare per fatti propri-spesso è capace di produrre film importanti, distaccati dalla massa. Vi dice niente Manchester by the Sea? Ecco, al netto di tutte le sterili polemiche che coinvolgono distributori, produttori, esercenti ovvero la artificiale e inutile Grosse Koalition contro i nuovi mostri-alias Netflix e Amazon Studios– bisogna dire che i signori hanno gusto e gusto cercano di infonderlo. Perchè questa lunga quanto prolissa introduzione, ben lontana da qualsiasi sano concetto di giornalismo? Per via del fatto che se durante un viaggio nella decorosa bacheca di Prime non mi fossi imbattuto nella locandina di Last Flag Flying non avrei mai saputo dell’esistenza di questo film( peccato imperdonabile per chi ama il cinema), diretto da quel grande autore che è Richard Linklater– Boyhood, i tre Before…, Me and Orson Welles eccetera eccetera- ,presentato al festival di Roma del 2017 e appunto mai giunto sui nostri schermi, tanto che- ma è un bene ve lo assicuro- lo si può godere solo in versione originale con sottotitoli perché nessuno in Italia si è preso la briga di acquistarlo e distribuirlo. Per questo benedico Amazon padre e figlio, produttore in primis, piattaforma in seconda battuta.
L’ultima Bandiera Volante è un po’ come la pallina di baseball lanciata da Don De Lillo in Underworld : quel drappo a stelle e strisce ci racconta gli Usa unendo nello stesso dramma la generazione del Vietnam e quella della seconda guerra irachena del 2003 , fissando una sorta di continuità storica, filosofica, culturale di un Paese in grado però di guardare a fondo nei propri incubi, di scavare nei propri isterismi e difetti e in possesso della forza inesauribile della vita, della volontà di non arrendersi, di proseguire. L’uso del simbolo bandiera del titolo originale non è gettato a caso. Il volo penetra il tempo; una partenza che è arrivo e viceversa. Nulla sembra poter mutare. Gli uomini di ieri sono ancora quelli dell’oggi. È cambiato solo il contorno.
È una storia bella quella di Last Flag Flying. Persino divertente-nel film si ride e sorride parecchio- se si resta in superficie. Un uomo, del tutto anonimo, entra in una nottata di tempesta in un pub. Non immaginiamo nulla né di lui tantomeno di chi si trova all’interno del locale. È una questione di amicizia, profonda, di vita vissuta in trincea, di un Vietnam condiviso, di una tragedia e un fatto oscuro che accomuna lui con il padrone del pub e poi ancora con un terzo personaggio ora diventato prete. Il film prende ben presto una direzione on the road per un motivo importante: chi ha voluto ritrovare i vecchi compagni d’armi ha appena perduto il figlio a Bagdad e la salma arriverà all’indomani con tutti gli onori che si tributano agli eroi di guerra. E qui mi fermo nel racconto per non privare nessuno di 125′ in cui l’armonia tra cinema, narrazione, interpretazione diventa assoluta.
Richard Linklater usa ogni tipo di registro: sulle prime il film appare una commedia brillante poi si trasforma in un dramma mai fine a se stesso, in cui il regista non forza le situazioni, si tiene alla larga sia dall’applauso sia dalla lacrima facile, imponendo sulla propria storia una coltre di ironia, un alleggerimento continuo attraverso il sorriso, la battuta sparata a raffica scevra dal banale, dal superficiale. In gioco c’è appunto l’immensa contraddizione chiamata Usa, dove la stupidità e l’inutilità delle guerre trovano in ogni caso un argine nelle coscienze di chi queste le ha combattute e le combatte. In Last Flag Flying gli eroi non esistono ma non ci sono nemmeno i cattivi. È una storia di uomini, di individui, del loro essere persone comuni, vittime della loro stessa memoria, del vissuto. C’è, in un film che più delicato non potrebbe essere, la condivisione di un misterioso peccato originale che si tramuta nell’accettazione non solo di ciò che è stato ma di ciò che si è nella realtà. Ognuno dei tre protagonisti trova lo specchio della propria coscienza in quella dell’altro. Il flusso dei loro fallimenti esistenziali defluisce per magia, si muta nella pura potenza dell’andare avanti, del sapere che un nuovo inizio è sempre possibile.
Last Flag Flying più che una ironica riflessione sulla guerra è un grande affresco sull’uomo americano, dipinto con un invidiabile equilibrio intellettuale: Linklater pare fare a fettine le iconiche e stereotipate simbologie, dalla bandiera alla divisa, dalla stupidità del protocollo al senso di appartenza eterno al corpo militare nel quale si è prestato il servizio. Ma alla fine, con un altro colpo di genio, riconosce che proprio su quei simboli e grazie a essi passa la possibilità di aggrapparsi alla vita, di accettarla, di provare a migliorarla, mettendo da parte l’ego, pensando al plurale e non al singolare. È l’America niente di più, niente di meno.
Delicata storia di amicizia, Last Flag Flying ha nei tre interpreti una conditio sine qua non di bravura: Steve Carell offre un’altra-l’ennesima- prova magistrale. Rende il suo essere uomo che ha perso tutto, moglie, figlio, speranze, con una naturalezza e una normalità propria solo dei fuoriclasse. La sua è pura anonimia del dolore, sottrazione continuata nella recitazione. Sguardo, smorfie, espressioni, silenzi che urlano: tutto è mostruosamente banale, normale. Carell è attore che recita talmente bene da sembrare il signor Rossi della porta accanto, ovvero il massimo coefficiente di difficoltà per chi fa quel mestiere. Bryan Cranston è il fool shakespeariano per eccellenza. È colui che rompe gli schemi del racconto, che tiene la scena, che battuta dopo battuta destruttura lo status quo, lo riduce in poltiglia, esprimendo le scomode verità, diventando il fulcro di tutto ciò che accade. Una bomba attoriale pronta a esplodere su tutti i registri dal comico al drammatico al melanconico, non perdendo mai né credibilità né la profonda umanità del suo personaggio dissacrante per disperazione. Laurence Fishburne è il terzo mattatore: l’unico a essersi costruito una maschera, ad essersi incanalato in una vita apparentemente normale. È eccellente nel far emergere a poco a poco il tarlo del ricordo, il peso di ciò che si è cercato di rimuovere. Sarebbero bastati questi magnifici tre per far di Last Flag Flying un’opera di culto. Ma c’è anche il film, la sua struttura, la sua regia. Per la gioia di chi lo ha visto, di chi lo vedrà.