Riferendomi al Il Regno d’Inverno, Palma d’Oro a Cannes 2014 e penultimo lungometraggio di Nuri Bilge Ceylan da spettatore medio quale sono avevo rilevato un cambio di rotta nella costruzione cinematografica dell’amato (mio) autore turco con questa annotazione: << Così Ceylan rischia di avvitarsi, di diventare egli stesso uno dei suoi personaggi, di parlarsi addosso per eccessiva ansia di non cadere nel banale >>. Sono andato a rileggermi quella recensione su questo blog per avvicinarmi a ciò che mi sto accingendo a scrivere su L’Albero dei Frutti Selvatici, la lunghissima opera che in questi giorni sta trovando una difficile collocazione nella sala sia per via delle sue tre ore di durata sia per un fievole gradimento da parte del pubblico. Ebbene dopo la visione sono costretto a confermare ciò che avevo scritto, aggiungendo un’altra piccola annotazione: proseguendo così il mio adorato Nuri Bilge Ceylan rischia di perdere per strada quello che ne aveva caratterizzato l’ascesa e gli aveva permesso di firmare capolavori, nessuno dei quali è stato depennato dai miei film favoriti. Manca infatti in L’Albero dei frutti selvatici il silenzio rumoroso che unito alla perfezione della fotografia e degli scenari, all’espressività degli interpreti, rafforzava le riflessioni dell’autore, le esaltava, fissandole salde nella memoria dello spettatore. Invece con questa sua ultima opera Ceylan prosegue nel discendere la china pericolosa che a un certo punto prende quegli autori che al cinema domandano troppo. L’Albero dei frutti selvatici infatti più che un film sembra un libro. I suoi contenuti, l’importanza delle frasi pronunciate, dei ragionamenti rendono assai complesso il mantenimento dell’attenzione. C’è una sorta di ridondanza verbale che non lascia tregua, che spiazza, eccessiva, spesso immotivata. Un libro appunto, di quelli dai quali bisogna essere travolti mediante l’accettazione sine qua non. Penso a quell’immenso scrittore che è stato Bruno Schulz, dove follia e profondità di pensiero andavano a braccetto. Ecco se L’Albero dei Frutti Selvatici fosse stato un libro o un’opera teatrale l’operazione di Ceylan sarebbe stata perfetta. Ma il cinema, anche se di immensa qualità figurativa e non, richiede il senso della misura e questo nell’opera manca. Per dirla tutta: l’amato da Ceylan-e da chiunque abbia buon gusto-Andrej Tarkovskij le tre ore le avrebbe fatte vivere in altro modo. Ricordate, per esempio, il primo film di Ceylan che vinse Cannes nel 2003, Uzak? E la dissacrante quanto tragica ironia sul personaggio di Mahmut che sul videoregistratore inseriva la cassetta di Stalker del Maestro (Tarkovskij) per poi una volta che il nipote usciva di casa sostituirla con una di un film porno? Ecco in L’Albero dei frutti selvatici tutto questo manca come se l’autore turco stia perdendo il senso della leggerezza da alternare alla sua cupezza.
L’Albero dei frutti selvatici è scandito seguendo il ritmo degli elementi naturali, cosa ormai accalarata nelle opere di Ceylan: terra, aria, acqua determinano i movimenti di Sinan, neo laureato, che ritorna nel villaggio natio dove scopre che il padre, insegnante, ha ridotto sul lastrico la famiglia perché gioca ai cavalli. La scassatissima automobile è in vendita, la luce di casa viene tagliata, la ribellione familiare è solo a parole, l’accettazione di uno status quo immutabile radicale da parte di chiunque. La Turchia di Ceylan è la stessa di sempre, identica a quella che il regista ci ha già raccontato. Falsa modernità, esistenze bloccate, destini a cui ci si assefua perché come dice una protagonista del film le cose più lontane sono in realtà quelle che abbiamo più vicine. L’anno in cui Ceylan segue Sinan viene scandito dalla vanagloria del giovane uomo che ha scritto un romanzo rurale e cerca un aiuto, un mecenate per pubbblicarlo scoprendo che né le istituzioni che si vantano di promuovere la cultura né gli imprenditori illuminati si impegnano per l’amore dell’arte ma solo se hanno un interesse personale. Sinan cammina: fa la spola tra Troia e il villaggio, incontra personaggi. Ad ognuno domanda. Con uno scrittore si scontra e paga la propria presunzione in una delle scene madri migliori del film. Con gli imam del villaggio si addentra da ascoltatore in una discussione infinita-a volte insopportabile- sul ruolo dell’interpretazione del Corano per poi scoprire che anche i gestori della religione in fin dei conti sono interessati a riavere uno scooter dato in prestito e a badare più alla sopravvivenza, e quindi all’accettazione supina, che all’azione. Ma il terreno di scontro reale è quello con il padre, la figura che spezza questa orgia di riflessioni e parole con la sua incoscienza, con una immaturità che sembra quasi la risposta a tutto ciò che è l’esistenza. Sinan e il genitore sono l’uno l’alter ego dell’altro. Ricercatori di impossibilità. Quanto il figlio cerca una soluzione esistenziale, sublimata dal voler essere scrittore di un libro con un solo lettore-guarda caso il padre- tanto il capofamiglia cocciutamente cerca l’acqua in un terreno arido dove acqua non potrà mai esserci. Sarà la condivisione di questi due fallimenti a offrire l’unica speranza in un finale di una bellezza e di una potenza irresistibile. Sì perché come tutti i film di Ceylan, L’Albero dei frutti selvatici è bellissimo. Esteticamente capolavoro, con movimenti di macchina mai realizzati a caso e scene, come quella dell’incontro con la ragazza e del successivo bacio, dove l’inquadratura cambia a seconda di ciò che si dice o dei silenzi che permettono anche allo spettatore di ascoltare il significato del vento e le vibrazioni della terra. Ma ai brividi dell’immagine e dell’atmosfera troppo spesso non corrispondono quelli della parola, proprio per l’uso eccessivo che l’autore ne fa. E così tutto si raffredda nonostante la critica professionale abbia espresso all’unanimità entusiasmo alle stelle.
Certo i riferimenti culturali del grande turco sono importanti: la narrativa russa, Cechov, il già citato Tarkovskij. Citando Schulz non posso non aggiungere che in L’albero dei frutti selvatici l’onirico fa capolino ogni tanto con scene madri che da sole varrebbero il prezzo del biglietto-le formiche che ricoprono il neonato in fasce in cui Ceylanriprende l’immagine usata mentre il padre di Sinan riposa sotto un albero è solo un piccolo esempio o il cavallo di Troia dentro cui il giovane laureato cerca riparo per dar vita a un incubo dentro un incubo- ma quel resta del film è la potenza delle immagini più che la sua scrittura. Asciugandolo, il che non vuol dire abbreviarlo, avrebbe avuto una resa migliore. Ma c’è il problema della parola che a volte non serve, al cinema, per spiegare quello che un autore immenso, quale è Ceylan, ci aveva già sussurrato facendoci ascoltare la musica della terra e l’urlo del vento, la potenza delle maree, la quiescenza delle acque stagnanti e dei suoi individui senza speranza.