GUAI a pensare che questo sia il solito film che cerca di raccontare i guasti di una dittatura, in specie quella cubana; guai anche a ridurre in modo semplicistico Ritorno a L’Avana – molto più azzeccato l’originale Ritorno a Itaca – nello schema dei film da << camera >> e non importa se questa si trovi in spazio chiuso o in uno aperto. Sarebbe fare un grave torto a Laurent Cantet, al suo cinema che banale non è mai stato né lo sarà mai, alla sua capacità di essere autore – e che autore, basta rivedersi << Risorse Umane >> o << La Classe >> per scacciare i rischi di ordinarietà- che non vuole imporsi nei confronti di ciò che si vede e, soprattutto, si ascolta. Sarebbe, in definitiva, un delitto di lesa maestà alle capacità individuali di leggere tra le righe. Perché riunire un gruppo di vecchi amici sulla terrazza appena meno fatiscente delle altre della capitale cubana e farli parlare per un’ora e mezza non è cosa nuova. Come nuovo non è mettere a confronto le loro storie, farli scontrare,schiuderli, in modo magistrale a dire il vero, a poco a poco come gli apriscatole fanno con le lattine. No, non è questo che colpisce in << Ritorno a L’Avana >>. Ma il modo attraverso il quale Cantet sfrutta il soggetto per delocalizzare il discorso e farlo diventare universale. Così la terrazza cubana si trasforma nel contenitore di una riflessione profonda, bisturi che incide la pelle e va dentro fino alle viscere, sul significato della paura indotta, sul fallimento generazionale e sulla grande forza dell’amicizia. Il tutto giocato sulla perfetta recitazione dei suoi attori, questa volta professionisti, e su uno script che sebbene ambientato in un luogo fisico ben preciso, una terrazza con un’unica divagazione nell’interno dell’appartamento, non solo regge per tutta la durata del film ma cresce, sale, lievita a poco a poco fino a ipnotizzare lo spettatore. Non accadeva lo stesso in quel capolavoro che è << La Classe >>?
C’È qualcuno che è tornato a L’Avana dopo tanto tempo e gli amici gli organizzano una serata. Guardano il mare dall’alto e poi tornano con lo sguardo alle case. Rammentano i vecchi tempi, ascoltano musica, ricordano le amenità di quando erano studenti. Rispetto ai cinquantenni o sessantenni visti al cinema in ognuno di loro è chiara l’ansia di libertà, proprio perché mai l’hanno avuta totalmente. Ricordano quel passato in modo leggero ma consci di essere stati giovani costretti a inventarsi spazi nei labirinti di un regime. E nessuno di loro, si scoprirà, si è mai realizzato, ha mai centrato il proprio progetto. I cinque amici che vediamo all’inizio sorridenti, quasi pronti per l’amarcord generazionale, convivono con l’essere sempre stati dimezzati. Il pittore non ha mai esposto all’estero e ha perso la vocazione; lo scrittore promettente è scappato in Spagna dove fa il maestro e non riesce più a scrivere una riga; l’ingegnere di colore monta batterie; l’oculista è rimasta sola perché i figli sono andati a Miami; il dirigente ha anteposto un’aleatoria carriera al talento di scrittore. Sono perdenti perché hanno sbagliato tutte le loro scelte. Sia chi è rimasto sia chi se ne è andato e ha voluto ritornare. Sono soprattutto innocenti, vittime di quella paura artificiale che i regimi inducono e iniettano nella psiche degli individui. Una paura che assume mille forme, mascherata, figlia del controllo dal quale ogni tentativo di fuga sia essa fisica o mentale è frutto di disperazione. Così i cinque amici si ritrovano rivedendo l’uno nel volto dell’altro il proprio specchio. Litigano, portano a galla rancori mai sopiti dagli anni, in un crescendo di disillusione ma con la bellezza di perdere a poco a poco ogni pudore, di mettersi realmente a nudo e di fatto di aggrapparsi in modo spietato ma necessario all’unica certezza che la vita gli ha riservato: l’amicizia.
IL FALLIMENTO corale è però allo stesso tempo un inno alla vita. Perché, nonostante tutto, i disillusi di Cantet e del cosceneggiatore Leonardo Fuentes Padura– lo scrittore cubano autore di << Le Palmiere et L’Etoile >> dal quale il film è tratto- non fanno i conti con il proprio passato in modo classico; piuttosto lo analizzano, lo osservano, lo rivivono criticamente prendendo atto di ciò che è stato con la consapevolezza della necessità di andare avanti, di guardare l’orizzonte che è laggiù, al termine di quel mare che si mostra all’alba di un nuovo giorno. Perché l’amicizia tra i cinque è più forte di qualsiasi sopruso subìto e nessuno, probabilmente, alzerà bandiera bianca. Cantet ci parla di ideali traditi. Non sono solo quelli rivoluzionari. La terrazza è un luogo privilegiato di separazione dal mondo ma anche luogo essenziale in quanto isola nel mare metropolitano, come Cuba è isola in mari che si incrociano, per rimettere a posto i cocci e prendere atto dello stato delle cose. È Itaca in quanto ideale al quale tendere e per il quale lottare. È di fatto la grande illusione dell’esistenza che i cinque attori, uno meglio dell’altro, Isabel Santos, Nestor Jiménez, Jorge Perugorria, Fernando Hechevarria e Julio Diaz Ferran esaltano, alzando scena dopo scena il livello della discussione, gettando le maschere, le difese, mostrandosi nella loro intima nudità morale, nella loro fragilità a tal punto che per lo spettatore è difficile prendere le parti dell’uno o dell’altro. Perché in questo film di Laurent Cantet ogni interprete porta con sé un pezzo di noi e permette spunti di riflessioni sul contemporaneo occidentale. Con il sospetto che quella terrazza che sta tra mare e città sia ovunque e noi su di essa a riflettere sulle nostre vite.