Jackie tra mito e manipolazione della storia. Così il genio di Pablo Larraín allontana il rischio biopic

SONO le ossessioni a popolare gli animi degli artisti. Quando, per esempio, si sostiene che scrittori o registi alla fine facciano sempre lo stesso libro o lo stesso film non si va troppo lontano dal vero. Cambiano i soggetti, le trame, le modalità di evoluzione del racconto ma ciò che trascina chi scrive o chi mette in scena è sempre l’ansia di affrontare, forse inconsciamente, ciò per cui si è costretti a esprimersi. L’ossessione di Pablo Larraìn è la storia, la relazione che l’individuo ha con essa. La descrive in ogni sua opera e la traveste all’occorrenza: può essere il racconto di un lucidissimo assassino dal doppio volto, Tony Manero, di un impiegato di medicina legale alle prese con l’orrore del regime di Pinochet, Post Mortem, delle speranze rivoluzionarie di un’intera generazione, No, i giorni dell’arcobaleno, di preti reietti e peccatori confinati in una casa isolata, El Club, o infine del gioco allegorico, a volte surreale ma non per questo meno drammatico, sulla fascinazione del mito e relativa riflessione della casualità storica, Neruda.

Jackie per Larraín poteva trasformarsi in un sentiero dal terreno scivoloso: per la prima volta il regista si confrontava con una grande produzione hollywoodiana portando il proprio cinema oltre le tematiche, per quanto universali, legate al Cile. In più doveva affrontare un personaggio come Jacqueline Lee Bouvier in Kennedy, con il rischio di mettere in scena la tradizionale biografia di una donna della quale in tanti hanno parlato e scritto o di rivisitare l’assassinio del marito in quel di Dallas il 21 novembre 1963. Come accaduto in Neruda anche in Jackie Pablo Larraín non cade nel tranello e supera a pieni voti la prova. Jackie è un grande film a cui è stata negata la soddisfazione dell’Oscar per la migliore attrice protagonista che sul campo la splendida Natalie Portman si era guadagnato. Di biografico nel film ci sono la struttura scenica e la ricerca esegetica: il resto è riflessione guarda caso ancora sul rapporto tra l’individuo e la storia, in piena coerenza- evolutiva aggiungo- con tutto ciò che in precedenza l’autore sudamericano ci aveva offerto.

L’ASSUNTO dal quale Larraín sembre prendere le mosse non è tanto su Jacqueline Kennedy quanto sul perché la figura del marito sia ancora là, intatta, bloccata nel proprio splendore per tutti coloro che hanno bisogno di un punto di riferimento che vada oltre l’analisi politica, di ciò che Kennedy fece bene o male e di come abbia inciso nel percorso degli Usa del secolo scorso. Per farlo Larraín ci parla di Jacqueline, il cui comportamento nei giorni successivi alla morte del presidente la fece diventare personaggio centrale dell’immaginario collettivo più ancora di quanto fosse in precedenza. Nel novembre del 1963 nacquero due miti contemporanei: da una parte John Kennedy, per l’impatto che la sua morte in diretta ebbe, dall’altra Jackie, fino ad allora considerata quasi un semplice, gradevole, corollario del presidente. Ed ecco che un’intervista, probabilmente frutto di fantasia, rilasciata a un giornalista nella residenza di Hyannis Port diventa l’occasione per l’autore cileno e il suo sceneggiatore Noah Oppenheim di decifrare la costruzione del mito. Non siamo più in Neruda, dove il caso e il no sense storico hanno una parte rilevante. In Jackieci troviamo sulla sponda opposta non tanto sulla conclusione quanto sul dato di avvio: il dolore straziante di una vedova diventa l’occasione per raggiungere quella lucidità che le permetterà di creare il monumento alla propria perdita e indirettamente a sè stessa.

Jacqueline è il demiurgo che tutto vede e che permette di analizzare il periodo storico in cui sta vivendo. Larraín sembra inserire la figura di Jackie sopra la storia stessa: è lei che comprende come usare la morte del marito per consegnarla ai posteri. La Jacqueline del film è un essere pragmatico fino al midollo: ha già intuito i cambiamenti dell’informazione di massa, della televisione le cui potenzialità in fatto di risonanza e coinvolgimento vengono sfruttate a piene mani dalla donna . Ogni mossa, ogni decisione è presa per costruire e soprattutto rafforzare l’immagine di John Fitzegerald Kennedy politico. Jackie lotta contro l’establishment che vorrebbe sbarazzarsi in fretta e furia di un’assenza-presenza scomoda; ne scopre le contraddizioni, costringe il neo presidente Johnson e il suo staff a dover fare i conti con un morto, mettendoli nei giorni dell’addio in secondo piano, subalterni a chi non c’è più. Il suo riferimento è Abramo Lincoln. Jackie sceglie, decide, va contro regole che le vorrebbero imporre; è caparbia, vitale, forte, persino cinica. Agisce da politico, scoperchia avidità, rivalse, contraddizioni. Manipola a suo modo. Come in ogni film di Larraín il personaggio principale ha mille sfaccettature. Le luci di un dolore sincero, l’oscurità di una rabbia repressa, la necessità di affermare il proprio ruolo da first lady che può essere riconosciuto soltanto se sarà fissato nella storia quello del marito. Tutto rivolto nel rendere pubblico il privato, nell’usare anche i passatempi più innocenti- la passione di Kennedy per il musical Camelot- come arma per edificarne la grandezza agli occhi della storia.

ANCORA una volta Pablo Larraín ci mostra questa amoralità propria dei suoi eroi con tocchi geniali, da maestro assoluto, con un montaggio frenetico nelle scene più crude, composto e freddo nell’intervista, con alternanza di colori e salti temporali che si mescolano in perfetta armonia. Utilizza reali spezzoni dei giorni che portarono Jacqueline a vivere in prima persona l’assassinio del presidente a Dallas ai funerali fino all’addio dalla Casa Bianca e in essi inserisce Jackie-Portman e i suoi attori. Mostra particolari, il rapporto tra la vedova e il cognato Bob, il confronto etico con un prete, John Hurt all’ultima interpretazione della carriera, l’arrovellarsi sui punti interrogativi determinati dalle perdite. Il cinema dell’autore cileno non fa sconti, rilegge con apparente indifferenza-ma non è così- il breve periodo della presidenza kennediana solo accennando alle presunte infedeltà coniugali e mettendo tra le labbra del fratello minore una battuta che si trasforma nell’analisi spietata dell’operato presidenziale in politica estera, dove non solo il giudizio è tranchant ma si ritorna a trattare della casualità del processo storico e di come questo sia tramandato.

JACKIE è film ben più complesso di quanto possa apparire ad una prima visione: è nelle pieghe di quest’opera che si cela la sua bellezza contenutistica. Larraín non tradisce se stesso, non abdica alle regole canoniche dei biopic. Il suo è un ritratto senza sconti, vero e molto profondo, intelligente come sempre. Su Natalie Portman vale ciò che ho scritto in apertura: è una delizia per gli occhi e per chi apprezza la tecnica attoriale. Il film è soprattutto lei; è tutto incentrato sul suo volto, sulle sue movenze, sull’aderenza maniacale che l’attrice statunitense fa del personaggio di Jacqueline Kennedy, a tal punto che si fatica a disgiungere la reale immagine della first lady da quella dell’interprete. Nei suoi occhi dolore, rabbia, ambizione si mescolano. Ma si sapeva già: Portman è attrice di spessore, in grado d rivestire ruoli uno diverso dall’altro. Basterebbe riguardarsi la sua recitazione in ebraico in Free Zone di Amos Gitai per capire che si è di fronte a un fuoriclasse ed è per questa sua ormai lunga militanza ai vertici che il secondo Oscar, dopo quello ottenuto nel 2011 con Il Cigno Nero, sarebbe stato più che meritato, senza nulla togliere alla brava e più che promettente Emma Stone.

SO che ad alcuni il film ha lasciato un po’freddini. Il problema è che il regista cileno ci ha abituato a opere dal fortissimo impatto emozionale. In Jackie questi elementi si ritrovano nella loro interezza: cambia semmai la forma che per ovvie ragioni è raffinatissima e passa con disinvoltura dal documentario al cinema-era già accaduto con No, i giorni dell’arcobaleno– ma non mutano i tratti salienti del ragionamento cinematografico. Anzi in Jackie si assiste a un processo di evoluzione. In Neruda Larraín aveva fatto a fettine e poi ribaltato il genere biopic producendo il film migliore di Cannes 2016 e forse dell’anno solare. Qui ripete il gioco, cambiando orizzonti: l’alter ego di Jackie-quello di Neruda era il commissario di polizia-non è solo il giornalista, è anche il prete impersonato da Hurt. E al posto del Cile c’è un convitato di pietra che è appena morto: John Fitzgerald Kennedy, il cui mito, secondo la cinica visione di Larraín, senza l’opera di Jacqueline probabilmente non sarebbe stato di tale rilevanza. Perché la storia alla fine, porta sempre con se un inganno, piccolo o grande che sia. E questo Jackie l’aveva compreso.

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