Ipnotico e fascinoso:con L’Infanzia di un Capo è nato forse un grande regista

Forse è nato un maestro o, come minimo, un regista dal grande potenziale. Lo comprenderemo dal suo prossimo film, Vox Lux, la cui uscita sembra sia stata posticipata al 2018.Si chiama Brady Corbet; ha solo 29 anni, una carriera di attore importante sotto la direzione di fuoriclasse come Haneke, Baumbach, von Trier, Araki ed ha girato il film migliore che si possa trovare nelle sale in questa stanca stagione di inizio estate. L’Infanzia di un Capo, il cui titolo riecheggia un racconto di Sartre da cui il film prende spunto per poi affrancarsi dalla trama lambendo anche Il Mago di John Fowles, in realtà arriva in Italia a due anni di distanza dalla presentazione di alcuni spezzoni al festival di Cannes del 2015 e alla trionfale passerella alla Mostra di Venezia dello stesso anno, dalla quale l’opera uscì con il Premio Orizzonti per la miglior regia e con il Premio Luigi De Laurentis per la migliore opera prima. All’epoca Corbet aveva 27 anni ma dietro alla macchina da presa sembrava ci fosse un veterano. Questo è uno di quei film, mettiamo non perfetti e non adatti a tutti i palati, che restano impressi, che l’indifferenza la mandano a quel paese, che entusiasmano, stupiscono, emozionano, trascinano, persino dividono perché non banali né scontati. Dove nulla c’è di giovanilistico; l’immaturità è bandita, l’ambizione è alta così come i modelli di riferimento. Corbet, per strano gioco del destino, realizzò la sua opera nello stesso anno in cui un altro regista, Ferdinando Cito Filomarino, lasciava stupefatti per l’eleganza, la profondità, l’intuizione del suo debutto nel lungometraggio, Antonia. Il filo che unisce i due enfant prodige è la visione di un cinema personale, fuori dalle mode, che si riferisca all’alto e non al basso. Quindi nessuna concessione alla sciatteria, all’improvvisazione ma una ricerca maniacale applicata ad ogni scena, ad ogni taglio di luce, ad ogni inquadratura. Certo se al primo film puoi permetterti un cast importante, una produzione solida alle spalle, parti già in serie A e le cose, in apparenza, diventano più semplici perchè ti affidi all’eccellenza e non alla mediocrità. Allo stesso tempo, però, corri il rischio di fare un buco nell’acqua visibile a tutti quanti. Cosa che Corbet evita con naturalezza, fidandosi delle proprie idee, cercando di giungere laddove ha intenzione di farlo. Perchè tutto l’obiettivo de L’Infanzia di un Capo è trasportare lo spettatore da un incipit e una costruzione disseminata di spunti, apparenti deviazioni dalla rotta, a un finale pirotecnico e choccante, dove non esiste nemmeno la dicitura The End sullo schermo, non essendocene bisogno. Per chi non l’avesse compreso Corbet riesce nell’impresa di renderci ipnotizzati scopici.

SUL FASCINO che questo film emana, quindi, nessuno può discutere. E se ci sono riferimenti, modelli ben vengano: Corbet stesso lo dichiara, prendendosi pure una bella dose di rischio:un conto è citare icsipsilon, un altro ricordarsi che è esistito un capolavoro come Dies Irae di Dreyer e affermare che tra i mille spunti anche quello è stato ben presente nella sua idea di partenza de L’Infanzia di un Capo, credo ancor di più dello stracitato Il Nastro Bianco, con il quale questo film ha punti di contatto solo in superficie. In Haneke il principio luterano di confessione, punizione, perdono costruisce un ordine sociale che porta alla creazione di mostri. In Corbet che ambienta il proprio film nella cattolica Francia del primo conflitto mondiale la mostruosità sociale è meno apparente, più sfumata, più privata. Il bellissimo e bravissimo Tom Sweet, Prescott, non è un innocente che si trasformerà. Ha già nel proprio DNA le stigmate del dannato-ogni tanto bisognerebbe ricordarsi che è esistito anche uno splendido film di Losey sul tema oppressione-ribellione-mostruosità- perché nato senza radici, portato in un mondo in guerra, dove si dissolvono i confini naturali, dove tutto è caos anche se si vive nell’apparente tranquillità di un palazzo in decadenza della campagna francese e l’eco degli spari, della morte, dei combattimenti sembra starsene al di là, oltre. Convitati di pietra, appunto. Guerra e violenza a gravare sulle spalle di tutte le marionette che Corbet mette in scena.

PRESCOTT è un ribelle naturale. Già dalla sua entrata in campo; inquietante, fissata da un’inquadratura ferma. Siamo all’esterno e la macchina da presa ci indica una finestra. Bimbi travestiti per una recita natalizia in chiesa scendono le scale in fila indiana. A chiuderla una chioma bionda. Immobile. Lo spettatore aspetta che il profilo osservato si volti, abbozzi un sorriso. Diabolico. In quel preciso momento Corbet ci ha già detto tutto. Non sappiamo ancora nulla del film eppure abbiamo la certezza che il bambino non sia come gli altri. Porta con sé i germi della mostruosità. Ma il regista è talmente furbo che quel voltarsi scontato del futuro protagonista verso chi osserva non avverrà. È un gioco: Corbet offre un indizio e poi lo sottrae. Uno schema preciso che l’autore seguirà per tutti e tre i capitoli-più incipit che parte con una prova d’orchestra ed epilogo- con cui suddivide l’opera. Strutturale quindi ma mai scontato, sorprendente, parecchio inquietante. L’Infanzia di un Capo si svolge nel caos di un mondo che va a rotoli all’interno di una famiglia apparentemente tradizionale ma dove quel caos stesso che sta nel mondo è ben dentro ognuno dei suoi componenti, è il caos dell’individuo naturale. Ed è lo stesso che Corbet offre allo spettatore, spiazzandolo. Dove ci troviamo? All’interno di un noir psicologico alla Polanski? Nell’esegetica ricerca di come nascono le dittature? In un pamphlet sociopolitico sull’Europa che sta fratumandosi prendendo come spunto ciò che avvenne nel passato? Sì in tutto questo.

OGNUNO dei partecipanti a questo banchetto di puro Cinema è straniero nei propri confronti. Sono tutti sradicati i suoi protagonisti: americani giunti in Francia al seguito dell’arrivo del presidente Wilson. Il padre, Liam Cunningham è un diplomatico oscuro e disilluso. La madre, Bérénice Bejo, una agiata poliglotta che ha girato il mondo al seguito del genitore missionario. È diventata altra da ciò che avrebbe voluto. Rigida e ferma, ancorata a una disciplina che ne cela i drammi interiori. Poi c’è l’amico di famiglia, un giornalista-scrittore dichiaratamente fallito, Robert Pattinson, che vediamo poco ma la cui assenza-presenza peserà alla fine in modo indelebile su tutta la storia e a suo modo la spiegherà. Attorno a loro gira l’altro stato. Quello della servitù, degli istitutori. Il contrasto sociale è netto tra padroni e sottoposti. Non sembra così per il bimbo. Il piccolo Prescott è vittima e carnefice della situazione. Accusa fin dall’inizio la madre di amare più Dio che lui. Per descrivere il suo percorso esistenziale il regista lo accompagna in tre episodi che appunto segnano l’infanzia di un capo. I tre scatti d’ira che permettono di assistere all’evoluzione della personalità. Alla base di ognuno dei capitoli-siamo in un dramma e forse in un libro-c’è un fatto scatenante, un’azione contro le regole codificate messa in atto dal piccolo. L’episodio a suo modo eversivo, la punizione e il perdono. Non da impartire. Da richiedere. E in contemporanea ogni episodio si chiude con un differente approccio di Prescott. In lui cresce la cocciutaggine, si forma la personalità, deflagra il rifiuto nei confronti degli schemi impartiti. Più avanza la sua storia, però, maggiore diventa l’assimilazione nei confronti di chi cerca di educarlo. Vede tutto Prescott, comprende gli intrighi, intuisce i segreti, fissa i propri pruriti esistenziali sugli stessi modelli paterni e si impone un’autodisciplina-contestatrice ma rigidissima- propria della madre. Chi diventerà lo scopriremo in un finale angosciante, magnifico dove Corbet, sfruttando appieno la colonna sonora di Scott Walker combina senso, immagini, musica quasi fosse uno Tsukamoto occidentale. Perché l’impianto del film sembra da camera, in realtà mischia generi e citazioni.

IL CONTENUTO inquieta. Dal figlio del caos non possono sorgere che il dispotismo e l’imposizione universale. La dittatura. La forma affascina, lascia a labbra spalancate perché il film è bello nella piena accezione del termine. Perfetto nella ricerca di particolari, quasi maniacale. Notare in una scena le piccole macchie sulla camicia bianca dell’istitutrice di Prescott, Stacy Martin, su cui l’immagine si fissa per poi andare lentamente sulle trasperenze dalle quali si intuisce un seno. Ci svela chi è il personaggio, fino ad allora apparso super partes, quasi etereo. Il cinema di Corbet è un accumulo di particolari estetici e di secchezza narrativa. C’è un lavoro immenso sulla fotografia da parte di Lol Crawley. In qualche scena oltre ai rimandi alla pittura sembra di penetrare in un’estetica alla Sokurov pur se Corbet non cita il grande russo tra i suoi riferimenti. Il film in Italia viene presentato in versione originale, il che ci fa apprezzare ancora di più la bravura degli interpreti. Bejo è una sinfonia di emozioni soffocate. Cunningham è un padre che solo con la violenza fisica riesce a imporsi in famiglia; Pattinson esalta l’ambiguità della propria parte.Tom Sweet è Prescott, forza trainante di tutta l’operazione. Un mostro non solo come personaggio ma per la recitazione, lo sguardo, la capacità di mostrare la propria doppiezza; i tormenti, la diversità. L’Infanzia di un Capo non si dimenticherà. Forse Corbet è fin troppo spavaldo nel voler dimostrare di essere un autore fatto e finito. Ma non c’è dubbio che il suo esordio è come il sole. Nascente. L’infanzia di un grande regista.

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