Non sono troppo d’accordo- e uno giustamente direbbe ma chissenefrega- sull’analisi di Paolo Di Stefano apparsa oggi sul Corriere della Sera in merito al successo che hanno gli scrittori meridionali. Si parte da un’osservazione: Camilleri e Niffoi vendono molto e sono tra i più venduti. I loro libri superano sempre le vendite dei precedenti. La riflessione di Di Stefano è acuta: parte di questi romanzi utilizzano il dialetto come grimaldello, quasi fosse una fascinazione necessaria per coinvolgere il lettore, per proiettarlo in un immaginifico viaggio nelle zone dove si svolgono le trame. La risposta Di Stefano non la offre, bensì si affida alle parole di Massimo Onofri in merito alla lingua di Niffoi e al rigetto di Camilleri nei confronti della critica stessa.Su Camilleri non mi pronuncio: lo conosco pochissimo, non amo parlare di ciò che non so. Ma su Niffoi mi sembra che non sia tanto il dialetto a vincere quanto le storie che racconta. Da sempre dico che lo scrittore sardo ha una particolarità unica nel panorama della nostra narrativa. E’quella di dilatare il fatto con una tecnica che non è italiana ma sudamericana, di modo che una sorta di << leggenda popolare >> – e un parente di Niffoi mi conferma sempre che i racconti sono proprio quelli che circolano tra la gente di Sardegna- si trasformi da << orale >> in << scritta >>. Niffoi dunque come i grandi narratori brasiliani- personalmente mi ricorda Jorge Amado- o come quelli dell’America centrale. In questo risiede la sua peculiarità. Quanto all’uso del dialetto non nobile, non letterario, ma involgarito non ci trovo nulla di male. Ci vorrebbero migliaia di pagine per dimostrare che si può essere grandi scrittori anche senza l’uso di terminologie, aggettivi, vocaboli iper raffinati. Perché il segreto- sempre secondo il mio inutile parere- non è tanto cosa si usa ma come si usa la lettera e la frase, come si combinano, con quale musicalità e drammaturgia. Simenon in questo è stato maestro. E vogliamo parlare di Celine?