IMMAGINARE un confronto tra due donne, unite dal legame di sangue e dall’olocausto, per spiegare il senso più profondo di una nazione. Trattare la materia con grazia, affidandosi a un bellissimo bianco-nero, a un formato fuori dalla storia, inattuale e quindi molto espressivo, pittorico nel senso completo del termine, l’1.37:1; inserire in mezzo a tutta questa delicatezza riflessioni e dialoghi durissimi, con l’occhio vigile dell’obiettivo che non prende mai le parti perché ha voglia soprattutto di raccontare e di far vivere i personaggi sullo schermo, senza enfasi, esaltazioni, reprimende, giudizi morali. << Ida >>, l’importante film del polacco, ma di residenza e cultura britanniche, Pawel Pawlikowski è anche questo. Un passeggiare in punta di piedi sulla madre di tutte le tragedie contemporanee. Gli serve per accompagnare lo spettatore lungo un viaggio non soltanto fisico di due donne all’interno della Polonia comunista del 1962. Potrebbe essere un romanzo cinematografico di formazione; in parte lo è. Ma ogni spunto, ogni idea servono all’autore per rendere intelligibile l’affresco sulle radici di una nazione e sulla natura dell’uomo.
LA NOVIZIA che presto prenderà i voti si chiama Anna e non ha un passato. Vive da sempre in convento. Della vita conosce solo lo scandire delle stagioni, le occupazioni quotidiane che le vengono assegnate. Fino a quando non viene inviata a Varsavia per incontrare una misteriosa zia che le svelerà ciò che è stato della sua famiglia. Anna scopre di chiamarsi Ida, di essere ebrea, figlia di genitori sterminati in campagna, a pochi passi da dove vivevano, forse dalle stesse persone che li custodivano e dovevano celarli agli invasori e alle leggi razziali nella seconda guerra mondiale. La zia Wanda Gruz è una donna dalla bellezza sfiorita e la rabbia in corpo, di professione è procuratore e ha contribuito a tenere in vita il Patto di Varsavia condannando a morte molti nemici del regime comunista. Brusca nei modi, cinica nelle valutazioni, sulle prime sembra non volere tra i piedi la nipote, poi ci ripensa e assieme partono per il viaggio rivelatore delle loro radici, alla ricerca dei corpi della famiglia, degli assassini e soprattutto per mettere i conti a posto nel loro passato. Solo che Ida non lo possiede: non ha esperienza della vita. Non conosce, ignora. Per lei il viaggio è l’occasione per scoprire il mondo, per mettere a confronto i propri dettami morali e religiosi con la realtà delle persone. Non giudica, parla poco. Osserva. I suoi grandi occhi indagano attraverso la nuova ottica alla quale si è consegnata. Verificano le brutture, le ingiustizie, le miserie individuali, il senso di disillusione che grava sul paese. Vedono anche la speranza dei giovani che suonano jazz nei gelidi saloni degli hotel di regime, la loro speranza di rapportarsi a un mondo diverso, che parla altre lingue, l’inglese e l’italiano, e sembra in grado di sperare e di sorridere. I giovani nel film di Pawlikowski sono gli unici non imprigionati dal senso di colpa e dalla paura della vita. Non sono come zia Wanda che cela attraverso il bere e il sesso occasionale, la propria condizione, soffocata da misteriose catene, da rimorsi le cui spiegazioni arriveranno verso la conclusione del film quando i conti con il passato sembrano tornare e le cose sistemarsi. Non sarà così: il profondo senso di espiazione e anche del peccato, porterà Wanda all’ultimo gesto, quello definitivo non prima di avere mostrato il mondo alla giovane nipote. E allora Ida dovrà, per la prima volta, operare una scelta di campo, decidere da che parte stare, quale strada intraprendere. Sperimenterà la vita, la gioia e i dubbi dell’incontro e sarà soltanto passando attraverso l’esperienza di donna, della laicità, che conoscerà sé stessa nel profondo, sentendosi finalmente pronta a vivere consapevolmente il proprio destino.
IL FILM ha uno svolgimento semplice ma sono innumerevoli i problemi che pone. Il suo segreto e il suo fascino risiedono nella capacità di Pawlikowski di incidere con un bisturi guidato da una piuma. Così la complessità delle motivazioni individuali si apre e si mostra, si spiega senza costringere gli spettatori ad addentrarsi nei labirinti delle domande. La forza del film è proprio questa:la capacità di essere romanzo leggibile e comprensibile, piacevole oltre che esteticamente bellissimo. L’apporto delle due attrici è fondamentale per il risultato. L’ esordiente Agata Trzbebuchowska è l’ideale per interpretare Ida. Non ha sovrastrutture precedenti, si presenta alla recitazione nuda e senza ieri proprio come il suo personaggio. Le riesce spontaneo rendere la figura della novizia alla scoperta del mondo così potente, credibile. Ha grandi occhi espressivi che fissano lontano, scavano nel reale sconosciuto che il suo regista le ha preparato. L’altra Agata del film, Kulesza, ha invece più esperienza, è una delle attrici importanti della scena teatrale e cinematografica polacca. La sua Wanda è densa, splendido esempio di donna provata dal senso di colpa, consumata dai rimorsi e dai dubbi, ma che non riesce mai a perdere la propria umanità e bellezza anche se destinata a infliggersi una condanna morale proprio nel momento in cui dovrebbe assolversi.
I REGISTI polacchi ci hanno abituato da tempo a proporre opere che non conoscono la banalità. Forse perché la Polonia è il crocevia obbligatorio dal quale passa la storia del’900. Dai tradimenti ricevuti ai fatti di Danzica, dall’annessione al Patto di Varsavia alle piccole rivolte degli Anni’50 fino alle lotte sindacali e al ritorno alla democrazia. Pawlikowski come tanti altri è un esule fuggito con la famiglia nel 1971 in Occidente, dove si è formato unendo lo spirito della sua terra con quello degli altri mondi nei quali ha vissuto. Il suo senso di religiosità << laica >> in << Ida >> lo ha portato a costruire un racconto morale potente. La sua esperienza di documentarista di livello, invece, gli ha consentito di starsene lontano dal melò, di essere rigoroso, di illustrarci il travaglio individuale e storico senza assoluzione e senza condanna. La Polonia che ci mostra è quella che ha vissuto da bimbo, con le strade deserte piene di buche sulle quali bofonchiano le Wartburg dei funzionari, la gente che cammina con gli sguardi bassi, la solitudine e il silenzio a connotare le persone, i privilegi dei membri di partito, il non detto su ciò che è stato, la consolazione nel bere e l’affidarsi a un dio che per essere compreso ha bisogno di sacrifici. Come dice la zia alla giovane Ida in una delle prime scene in una battuta che sta facendo storia ed è sulla bocca di molti, non si può immaginare una vita religiosa senza essere passati dall’esperienza concreta. Per essere tali i sacrifici impongono conoscenza di ciò che si perde. Solo così possiamo accettarci e possiamo scegliere il nostro ruolo. Il sacrificio privato di Ida che diventerà suor Anna è in definitiva lo stesso compiuto dalla sua nazione. Uscita dagli incubi, grazie alla capacità di entrare senza sconti nella comprensione delle proprie brutture. In questo senso << Ida >>è quasi un atto d’amore che l’esule Pawel Pawlikowski consegna alla sua Polonia, regalandole la propria catarsi.