Suk Suk di Ray Yeung. Qualitativamente tra i migliori film visti al Feff22. Costruito come delicato melò tra un tassista e un pensionato con il primo che alla vigilia delle nozze della figlia prende la consapevolezza del proprio orientamento sessuale, celato nel corso degli anni, e il secondo che questo bivio lo ha già attraversato. È un film soprattutto sull’amore, su ciò che avrebbe potuto essere la vita ed anche su Hong Kong, intesa come terra dove la libertà è possibile(nd:a distanza di un anno dalle riprese pensiamo di no). Yeung infatti si muove su svariati piani: accanto alla storia d’amore tra i due affianca, inserita benissimo nella sceneggiatura, una sorta di analisi sulle riunioni di una comunità di gay anziani della città, sulle problematiche che la coinvolgono, sui casi individuali da risolvere e, infine, sulla relazione del tassista con moglie e figli. In ballo entra anche la religione, il guardarsi allo specchio, il riflettere su un bilancio esistenziale e trarne le conseguenze. Il film, che ha ottenuto un successo commerciale e di critica notevole, è girato magnificamente, senza alcun tipo di pruderia o di tentazione di denuncia, e ha in Tai Bo e in Ben Yuen due interpreti di grande spessore e compostezza. Il titolo nel linguaggio locale significa vecchietto più che zio e non a caso una delle scene più toccanti e profonde di Suk Suk si svolge nella casa di un vecchio, in cui Yeung riflette su sentimenti e decadenza fisica con pochi tocchi di grandissima qualità. Alla fine si resta affascinati dall’esempio di grande umanità che questo giovane autore indipendente riesce ad esprimere. Già presentato alla Berlinale di quest’anno Suk Suk ha fatto incetta di premi nei festival asiatici. Promosso su tutti i fronti.
Cheerful Wind di Hou Hsiao-hsien. È il secondo film del grande regista taiwanese restaurato dalla versione originale a 35mm. È stato girato nel 1981 e gli anni si sentono tutti. Prima di Città Dolente, Millennium Mambo, Il Maestro Burattinaio, Three Times etc, Hou Hsiao iniziava a porre le basi della propria poetica. Il modello è francese e lo si nota subito dalle scene iniziali metacinematografiche con un regista in erba che sta girando uno spot pubblicitario in un paesino costiero. Il film procede in modo spensierato attorno alla storia tra la compagna del regista e un ragazzo cieco del quale si innamorerà. Divertente, per certi versi antesignano di molte delle tematiche che pervadono la sua opera: il personaggio interpretato da Fung Fei-fei ricorda con le dovute proporzioni quello di Shu-Qi in Millennium Mambo. In entrambi i casi la relazione con il proprio partner è scandita dall’insoddisfazione. Qui non esiste violenza ma il personaggio del regista si nutre di un egocentrismo che appunto lo rende cieco nei confronti dei sentimenti. La sua ragazza gira per Taiwan con la macchina fotografica, pronta a fissare volti. È una donna in erba che sogna l’Europa che reclama la propria indipendenza. Fung Fei-fei è stata la più importante cantante taiwanese, morta prematuramente nel 2012. Una sorta di icona nazionale. Qui è bravissima nell’interpretare la sua parte. Non per niente il film è ritmato dalle canzoni di quella che allora era una affascinante e spiritosa ragazza.
The President’s Last Bang di Im Sang-soo. Punto fermo della cinematografia sudcoreana dall’anno della sua uscita, 2005, il film è stato presentato al Feff22 nella forma originaria, non privata quindi dell’incipit e del finale documentaristico, censurato all’epoca da una sentenza del tribunale. Ancora oggi L’Ultimo Colpo del Presidente resta uno straordinario esempio di cinema capace di andare oltre il lato politico della vicenda. La sera del 26 ottobre 1979 il presidente della Repubblica Park Chung-hee, al quale la storia darà poi il merito di avere posto le basi per l’esplosione economica della Corea del Sud negli anni a seguire, venne assassinato dall’amico e presidente dei servizi segreti Kim Jae-gyu, figura altrettanto controversa della recente storia nazionale. Im Sang-soo ricostruisce la vicenda a suo modo. Il dato di cronaca all’autore serve solo per mettere in luce e in ridicolo le storture del potere, la sua vacuità, la fondamentale stupidità delle dittature– Park Chung-hee aveva di fatto imposto un regime totalitario- e la inutilità unita a una certa superficialità del sogno democratico. È un ragionamento amaro che l’autore mette in scena seguendo uno schema shakespeariano, dove spicca la strepitosa interpretazione di Baek Yoon-sik, l’assassino ipocondriaco ossessionato dalla propria alitosi, e in cui, convitato di pietra, c’è l’intero popolo sudcoreano che ancora oggi a distanza di 41 anni si interroga sull’evento. Paragonato a un film di Kubrick trovo invece abbia molte assonanze con il modo di fare cinema di Paolo Sorrentino, per come viene usata la cinepresa, per i suoi movimenti, per l’assurdo che fa capolino in ogni scena. È un film splendido che in Italia, nelle sale ufficiali, non è mai stato distribuito nemmeno dopo il successo ottenuto dal regista per il suo The Housemaid. << Vi sembra un rivoluzionario che lotta per la libertà? O un Don Chisciotte paranoico? Dicono che le sue ultime affermazioni in tribunale, che esprimevano il suo grande desiderio di democrazia, furono molto toccanti. Forse…Ma voi curiosi dovrete scoprirlo da soli >>. Questo recita la voce fuori campo nel prefinale di The President’s Last Bang mentre scorrono le immagini dell’interrogatorio a Kim Yae-gyu, ribaltando sugli spettatori e quindi sulla nazione intera la responsabilità di una risposta che vada oltre la storia. Film imperdibile.
The Man Standing Next di Min-ho-Woo. Secondo film del festival che tratta dell’assassinio del presidente sudcoreano Park Chung-hee. Qui però si approfondisce cosa accadde nei mesi precedenti il fatidico 26 ottobre 1979. Paga il fatto di essere stato presentato subito dopo The President’s Last Bang però è un ottimo film a metà tra la spy story e l’indagine di cronaca, realizzato in modo molto professionale. Anche qui al centro della scena i travagli del futuro omicida Kim Jae-gyu, interpretato da un ottimo Lee Byung-hun, del quale vengono messi in risalto i rapporti con la diplomazia statunitense e la crisi, dovuta a differenti visioni strategiche, con parte dell’establishment e con il presidente stesso. Nonostante la buona volontà di elencare i fatti da parte del regista,forse non volutamente come nel caso di The President’s Last Bang, è sempre l’ambiguità del personaggio al centro della scena. Byung la esprime senza istrionismi ma in modo altrettanto efficace, portando lo spettatore all’interno del proprio travaglio individuale. Bravissimo anche Lee Sung-min nella parte del presidente Park, quasi un alter ego del proprio omicida. Una maschera, la sua, convinta del declino, consapevole di un potere ormai esaurito. Il film, lo ripetiamo, è molto buono, un prodotto di grande qualità, destinato ad avere un respiro internazionale ma privo di colpi di genio. Qua e là si intravedono omaggi a The President’s Last Bang, come quella vettura ripresa dall’alto nella notte di sangue di Seoul.
An Insignificant Affair di Ning Yuayan. A distanza di 12 anni dal suo debutto come attrice ne La Guerra dei Fiori Rossi, la figlia di Yuan Zhang segue le orme paterne e presenta al Feff22 un film per cui la vorremmo bacchettare. Perché l’idea di base è ottima: due ragazzi della terza superiore vengono pescati dalla preside della scuola mentre lui le legge la mano. Si scopre così che nella Cina del 2008 gli innamoramenti tra compagni di classe erano vietati(non so se lo sono ancora oggi) . Ne scaturisce l’obbligo di dover scrivere e recitare di fronte agli studenti una lettera di scuse per aver infranto il regolamento. Il problema è che Xiaoshi, il ragazzo, ha l’animo letterario e ribelle; ne dovrà compilare parecchie, inventandosi con Xiaou l’esistenza di baci e di atti che in realtà non ci sono mai stati mentre l’innamoramento, quello vero, farà capolino tra i due. Il film per quasi tutta la sua durata si regge su un ottimo equilibrio che mette in luce l’assurdo di un’educazione rigida, in cui anche la libertà sentimentale è controllata,con buona pace di chi invidia il modello cinese.Il tutto trattato con grazia e una leggerezza mai superficiale anche per via della bella interpretazione sia di Dong Bowen, Xiaoshi, sia della stessa regista che è la ragazzina Xiaoyu. Ero pronto all’applauso perché a dispetto dei suoi 22 anni la figlia e nipote d’arte sa come mettere in scena e come girare. Poi è arrivata la doccia fredda di un finale da soap opera a rovinare il tutto. Peccato.
Lucky Chan-Sil di Kim Kyoung Hee. Il regista muore e la produttrice perde posto di lavoro e certezze esistenziali. Finisce con il fare la donna di servizio a casa della sorella attrice dove incontra un insegnante di francese, guarda caso regista di qualche corto. La crisi di una quarantenne descritta in un’insopportabile commediola dove ogni tanto spunta il fantasma di Leslie Cheung e Jazujiro Ozu viene citato a sproposito come punto di riferimento del personaggio principale. Vedendo il risultato finale non vorrei che il fantasma dell’autore giapponese vada a visitare la regista per ricordarle di non nominare mai le divinità invano. Speriamo bene.
Beasts Clawing at Straws di Kim Yong-Hoon. All’inizio pensi di essere entrato nella versione sudcoreana di Soldi Sporchi di Sam Raimi poi ti accorgi che ti trovi a metà strada tra un film di Robert Rodriguez e Quentin Tarantino. I modelli sono quelli e il giovane regista Kim Yong-Hoon non si vergogna di seguirli in modo anche sfacciato. Insomma nulla di nuovo sul fronte orientale. È un peccato perché al regista era stato donato un cast stellare, in sostanza la creme dei divi locale. Jeon Do-yeon è come al solito molto efficace nell’interpretare la peggiore tra le bestie femminili presenti, l’altra è la bellissima Shin Hyun-bin, costretta al delitto per necessità. E tra i maschietti rivaleggiano divertendosi Jung Woo-sung, Bae Seong-woo, Jung Man-Sik e Yoon Je-moon. Tutto parte da una borsa fintoVuitton piena di bigliettoni, abbandonata in un mobiletto di un bar e ritrovata dal commesso. Si ride per le esagerazioni e le cattiverie sapendo già quali sono schema e trucchi.
I WeirDO di Liao Ming-yi. Lui è misofobo, fa il traduttore ma non sa digitare sulla tastiera. Lei soffre di svariate allergie, gira per Taiwan bardata, posa per le scuole di pittura e ogni tanto taccheggia i supermercati rubando cioccolata che non mangia(scena già vista ma non ricordo in quale film). Si incontrano, si piacciono, si mettono assieme fino all’inevitabile conclusione. Film girato con l’IPhone XS per lunghi tratti divertente, ironico vira poi sulla riflessione sentimentale. I disturbi ossessivi compulsivi potrebbero essere un’arma di difesa per restare in una bolla e non affrontare la vita e le sue problematiche? A tratti spassoso-le scene in cui i due vanno dal medico chiedendo di riportarli alla condizione di malati sono le migliori- altre scontato, I WeirDO (io sono strano) piacerà ai cuori infranti e ai giovani poeti sentimentali che lo eleggeranno a commedia cult della stagione. Esprime comunque nella messa in scena, nella intensità dei due protagonisti, bravissima Nikki Hsieh,una forza non comune. Avrebbe potuto girarlo Michel Gondry con la supervisione di Noah Baumbach. Pur essendomi distaccato da tempo dal genere m’ama-non m’ama lo promuovo per l’ intelligenza e per l’oggettiva bellezza delle sue immagini colorate.
My Prince Edward di Norris Wong. Da una parte c’è stato un matrimonio di comodo;dall’altra uno incombente con l’uomo mai cresciuto con il quale si convive. La ragazza trentenne cerca di barcamenarsi quando si accorge che per il primo rapporto coniugale non è stato mai chiesto il divorzio. La giovane regista Norris Wong, al primo lungometraggio, usa la complicazione burocratica e l’improvviso palesarsi del primo marito per costruire una commedia amara che in realtà è solo un canovaccio per parlare d’altro. Il tema centrale del film è la libertà, la possibilità di scelta. La sua eroina-difficile non innamorarsi di Stephy Tang– ricorda altre donne al bivio dell’anagrafe e delle decisioni. Tutto ciò che si vede all’inizio del film, una tartaruga rovesciata che la Tang porterà a casa, verrà appunto ribaltato da prese di coscienza che riguarderanno i protagonisti, nessuno escluso, di una storia godibile ma non nuova. L’impianto narrativo risente infatti di altri modelli. Nel piccolo appartamento << prigione >> in cui convivono i presunti novelli sposi si intravendono i manifesti di Rebecca ,la prima moglie, di Eternal Sunshine on the Spotless Mind, i dvd di Dirty Money. L’espressività e la compostezza recitativa di Tang e la buona prova del cast salvano i momenti di incertezza della narrazione.
The Captain di Andrew Lau. Allo spettatore medio cadono già le braccia nella scena in cui il comandante del volo Sichuan Airlines 8633 domanda all’equipaggio chi è iscritto al partito comunista e tutti alzano le mani. Girato per celebrare il 70simo anniversario della rivoluzione cinese The Captain è il più palese e sfrontato esperimento di film di propaganda giunto sugli schermi negli ultimi anni. Talmente cristallino nella sua sfacciataggine che non vale nemmeno la pena di approfondirne il contenuto. Da un grande regista come Andrew Lau ci saremmo attesi almeno più pudore ma comprendiamo che le pressioni dei funzionari di partito abbiano influenzato e non poco lo script originario, o almeno lo speriamo. Cosa si salva di tutto l’impianto? La cura del dettaglio della fase preparatoria al decollo e la narrazione delle difficoltà di un volo già passato agli annali dell’aviazione civile. Era il 14 maggio 2018 e all’Airbus A319-33 della Sichuan Airlines che faceva rotta da Chendgu a Lhasa esplose a 9100 metri di quota il parabrezza della cabina, causando una decompressione che avrebbe potuto essere fatale. La bravura del comandante e degli ufficiali permise all’aereo di scendere di quota, di attraversare una lunga serie di temporali e di cumuli fino a un rischioso atterraggio di emergenza nell’aeroporto da cui era decollato. Non ci furono feriti, se non due membri dell’equipaggio. Una storia ideale per celebrare << il lavoro e le procedure >> della grande madre patria.
Colorless di Takashi Koyama. Il secondo film giapponese del Festival dopo One Night-il documentario I-…Documentary of the Journalist non è in concorso- ha il merito di ingannarci dapprima con il genere romanzetto sentimentale di formazione rifacendosi ad illustri predecessori per poi approfondire. Al centro della scena ci sono un fotografo in erba e una ragazza bugiarda seriale che è innocente-colpevole, modella, massaggiatrice, traditrice, prostituta, incosciente tutta racchiusa in un solo corpo dalle mille anime, proprio come Tokyo dove la ragazza va a vivere lasciando la campagna. Koyama sviluppa il film seguendo dapprima il punto di vista di lui e successivamente quello di lei. E mostra qualcosa di sufficientemente scontato, di deja vu da almeno 30 anni. Fortunatamente vira all’improvviso e Colorless da opera incolore come il suo titolo si trasforma in altro. Quale è la dimensione umana della protagonista? Quale la sua autentica vita? La risposta è contenuta nel rapporto esistenza-fotografia, nel sentirsi sinceri solo nello spazio neutro che dona agli altri un’immagine di noi stessi. Oltre la vita stessa. Bella riflessione sui millenials giapponesi Colorless ,ripulito dall’ansia autorale del proprio regista, è un film da non sottovalutare e che ha una propria dignità. Bravissimi i due ragazzi Daichi Kaneko e Ruka Ishikawa.
Detention di John Hsu. Seconda opera taiwanese del Feff sfrutta l’impostazione dell’omonimo e intelligente videogioco- una perla artistica per gli appassionati del settore- per parlare del Terrore Bianco, il lungo periodo storico che va dal 1947 al 1987 in cui a Formosa venne decretata la legge marziale, già trattata dallo splendido Città Dolente di Hou Hsiao-hsien nel 1989. Hsu inserisce i propri protagonisti negli Anni’60 facendoli muovere in una realtà doppia-il reale e appunto il gioco alla maniera del Cronenberg di ExistenZ-in cui non esistono spazi di respiro. L’atmosfera è oppressiva, il senso di claustrofobia asfissiante, la voluta e ricercata lentezza del ritmo nega qualsiasi fuga anche psicologica da ciò che viene mostrato. In questo, che potrebbe apparire un difetto, sta la forza di un’opera che meriterebbe una seconda visione per essere apprezzata a pieno. La catalogazione di film horror, la restrizione nel genere non rendono giustizia a Detention che è ben altro. Libri e cultura sono nemici da estirpare,chi li legge, li distribuisce, li custodisce va eliminato. Film parecchio ricercato nella forma estetica e nei colori più che nella ricostruzione dei mostri che si aggirano nei corridoi della scuola ha un suo perché nei pregi e nei difetti. Non anonimo come altri visti nelle prime giornate.
Chasing Dream di Johnnie To. Quella che si attendeva come una delle grandi premiere del FEFF si rivela un mezzo fiasco e delude in larga parte le attese. A distanza di anni colui che ha reinventato la cinematografia di Hong Kong e soprattutto le ha permesso di rompere le barriere continentali porta in scena una favoletta musicale in cui vengono coinvolti un pugile e un’aspirante artista da talent show. Sia chiaro To resta un maestro e nulla ha perduto del suo smalto filmico. L’alternanza di colori, le scene musicali, l’ambientazione rasentano la lode più che il massimo dei voti. Purtroppo è tutta l’impalcatura del film che non regge. Il ricercato mix di generi e di rimandi- i modelli di riferimento sono tanti- spesso non si amalgama e i vari personaggi in campo sono più simili a burattini che a qualcuno di reale. Alla fine la mancanza maggiore è la tensione drammatica. Un buon esercizio di stile, dunque, ma nulla più.
The White Storm 2-Drug Lords di Herman Yau. Action movie tirato come una corda di violino pur nell’ambito di una costruzione classica che nulla aggiunge e nemmeno toglie al genere . Yu Shun-tin è il nipote del capo della triade di Hong Kong ma si è allontanato da quel mondo entrando in quello dell’alta finanza; Dziang ha un passato di piccolo spacciatore e di amico di Yu fino al giorno in cui quest’ultimo gli ha tagliato tre dita per eseguire un ordine dello zio. Ora è diventato lui stesso un boss importante del narcotraffico che gestisce attraverso una società di comodo di distribuzione di carne di maiale. Si ritrovano a distanza di quindici anni con Yu che dopo avere visto morire il figlio per droga è deciso a ripulire la città dai narcotrafficanti, agendo di fatto al posto della polizia. Sparatorie, fugaci introspezioni psicologiche, l’impossibilità di sbarazzarsi del passato, il rapporto genitori-figli: Herman Yau inserisce tutto questo in un film, presentato nella seconda giornata del Feff che non ha mai rallentamenti e che fila spedito verso una logica conclusione. Da manuale un inseguimento automobilistico all’interno della metropolitana di Hong Kong. Da ricordare la scena del funerale del boss. Per il resto adrenalina assicurata senza che il regista si spertichi in approfondimenti sui personaggi. Ottimi Andy Lau, Louis Koo e Michael Miu.
Romance Doll di Yuki Tanada. Lui è uno scultore che per sbarcare il lunario viene assunto in un laboratorio dove si progettano e costruiscono bambole erotiche; lei è la modella che senza saperlo presta la forma del suo seno per migliorare la qualità del prodotto. Si innamorano a prima vista, si sposano fino al prevedibile patatrack dapprima coniugale poi sanitario. La bambola perfetta non sublimerà il senso di perdita ma perpetuerà l’immagine della moglie. Lunghissimo, 123′, brioso e brillante nella prima parte-pur se prevedibile- diventa a lungo andare soporifero, fiaccando un’idea non nuova ma che, con i giusti tagli in sede di montaggio, avrebbe potuto risultare godibile. Buono, in compenso, il finale. Tratto da un racconto della regista, Romance Doll è una pura storia d’amore– ce ne sono state troppe in questo Feff- inserita, per contrasto, nel mondo in cui si fabbricano alcuni degli oggetti delle perversioni nazionali, che non sono poche. Noi preferiamo rileggerci Mishima o Kawabata. Ottimo e solido il cast con in evidenza un espressivo Issey Takahashi e la bellissima Yu Aoi.
I-Documentary of the Journalist di Tatsuya Mori. Primo docufilm del FEFF dedicato al sistema del controllo dei media in Giappone. Per farlo il documentarista segue la reporter del Corriere di Tokyo Isoko Mochizuki durante le sue inchieste su presunti scandali, episodi di corruzione, insabbiamenti che coinvolsero il governo Abe nei primi mesi del 2019. Il buono del film è che né regista né protagonista siano stati toccati dalla sindrome di dover salvare il mondo propria di Michael Moore. E già il fatto che non sia un documento a tesi è positivo. Il secondo fattore di interesse è come la libertà di stampa e di opinione siano continuamente limitate o addirittura annullate da una casta che sa di regime. In questo risiede il suo punto forte, soprattutto per chi non conosce la divisione sociale giapponese, le sue regole e la sua cultura. Ma la monoritmica si palesa troppo in fretta, facendo perdere a poco a poco l’attenzione. Lo schema diventa sempre uguale a se stesso: inchiesta-conferenza stampa del segretario di gabinetto Yuga Toshihide-domande di Mochizuki-non risposte o censure di Toshihide-pareri della stampa locale e internazionale sul sistema di organizzazione dei media e relative limitazioni e via senza soluzione di continuità per quasi due ore, in cui nulla di interessante viene aggiunto a ciò che era stato mostrato nei primi 30′. Alla fine, da giornalista professionista, ho avuto la tentazione del pisolino mattutino. Poi mi sono venute in mente le recenti organizzazioni delle conferenze stampa di casa nostra e ho notato alcune somiglianze. Così mi sono ridestato.
Ashfall di Kim seo-Byung e Lee-jun Hae. Film di apertura ufficiale della prima giornata del FEFF è un divertente blockbuster a metà tra l’avvincente spy story e il disaster movie. Sia chiaro nulla sa di nuovo ma il prodotto commerciale scorre che un è piacere, pur tra le incongruenze del soggetto. D’altronde è ciò che larga parte del pubblico vuole e non importa se la coerenza e il pragmatismo spesso vadano bellamente a quel paese. Perché il film deve incassare, far divertire, tenere attaccato alla poltrone o al monitor del pc il proprio fruitore. Ashfall ci riesce alla grande. Un vulcano in eruzione provoca una sequenza di terremoti devastanti in sud Corea. L’unico modo per fermare il sisma è appropriarsi degli ordigni nucleari custoditi negli arsenali della nord Corea e farli esplodere all’interno di miniere. Andrà a finire che si scatenerà una guerra mondiale sotterranea che vedrà coinvolte le due Coree, gli americani e i cinesi. Eroi della situazione sono due ufficiali, uno improbabile e apparentemente imbranato, l’altro noto traditore e servo di più padroni ma assai furbo. Diventeranno nemici per la pelle e quindi amiconi e salveranno l’umanità coreana da un più che probabile armageddon. I due protagonisti, molto bravi e ben conosciuti anche fuori dalla madre patria, sono Ha Jung-woo e Lee Byung-hun: girano a mille, si divertono e divertono ma non inferiore è tutto il cast sorretto da un soggetto in cui l’ironia e la leggerezza abbondano.
Changfeng Town di Wang Jing. Intrisa di cultura cinematografica che dispensa a più mani la regista Wang Jing reinventa un mondo sognato, quello dell’infanzia e dell’adolescenza, immaginando un villaggio cinese, Changfeng appunto, sospeso e fuori dal tempo. Le intenzioni sono buone e in un certo senso si rifanno alla poetica di Jia Zhangke del quale è stata aiuto regista nel magnifico Al di là delle Montagne. Ma il discorso alla fine allontana le problematiche del maestro e si limita a descrivere il percorso di formazione di un gruppetto di ragazzini che sembrano vivere in una bolla temporale. Non c’è infatti in Wang Jing il contrasto sociale e politico tra nuova e vecchia Cina. Tutto resta incastrato all’interno del villaggio con le sue piccole storie, con cinema e musica che funzionano esattamente come i treni che passano e che il quasi centenario Muto osserva perché solo così può immaginare un mondo altro. Il cinema è il luogo deputato del sogno, la sua sala fatiscente permette al villaggio di penetrare in quell’ignoto che in pochi alla fine avranno il coraggio di affrontare. L’operazione nostalgia è infarcita di citazioni, da L’Atalante di Jean Vigo ai 400 Colpi, da Le Notti di Cabiria, a Io… e il ciclone con Buster Keaton. Il personaggio di Quattrocchi sembra preso a nolo da Nuovo Cinema Paradiso .La musica spazia da Chuck Berry a Elvis Preasley, dai Velvet Undergroung in salsa orientale a Cathy Jean e Peggy Marsh. Topi infestano Changfeng, chi li trova e li porta alla maestra di scuola riceve 20 centesimi; strani odori permeano le vie; le rose quando fioriscono emettono un suono che solo in pochi possono percepire; il pappagallo di Muto ha avuto la sfortuna di non riuscire mai a parlare proprio perché vissuto con uno che stava in silenzio; poi ci sono le vedove in calore, i tradimenti, le amicizie che si rompono, gli sberleffi, i primi innamoramenti e le caratterizzazioni dei pochi personaggi di un’umanità stereotipata uscita appunto dalla cultura cinematografica dell’autrice. Diviso per capitoli, formalmente molto bello-quei melograni spiaccicati per terra sembrano usciti da un quadro di Luciano Ventrone– Changfeng-presentato nella prima giornata del FEFF- è un’occasione sprecata perché Wang Jing ha mestiere. Ma se vuole crescere deve affrancarsi da ciò che conosce. Non limitarsi alla comfort zone dell’operazione nostalgia.
One Night di Kazuya Shiraishi. Secondo film del FEFF22 prosegue il racconto coerente sulla famiglia iniziato nella giornata inaugurale con l’efficace The House of Us. Trasposizione cinematografica dell’opera teatrale Hitoyo di Yuko Kuwabara è un noir altalenante a tratti molto efficace ed altre tendente al grossolano. Una madre torna a casa quindici anni dopo avere ucciso il marito per salvare i propri figli dalla violenza di quest’ultimo. I tre ragazzi, ormai adulti, vivono da irrisolti senza essere riusciti a coronare i propri sogni e a comprendere appieno il significato di quel gesto. Ognuno di essi si porta appresso il fardello di quell’evento. Yuji è diventato giornalista di una rivista pornografica ma sogna di completare il proprio romanzo che, ci avremmo scommesso, riguarda il caso della madre. Daiki non ha mai superato il trauma dell’infanzia, continua a balbettare e sta per essere abbandonato dalla moglie che scopre il delitto compiuto dalla suocera. Sonoko fa la prostituta, è alcolizzata e avrebbe voluto diventare parrucchiera. Il ritorno della madre Koharu e il contemporaneo arrivo del misterioso taxista Doushita porteranno all’inevitabile catarsi. A fronte di un’interpretazione generale molto positiva, straordinaria la prova di Yoko Tanaka-attrice giapponese di grande spessore-nel ruolo della madre il film non disdegna di giocare con atmosfere << occidentali >> non nuove ma si perde, soprattutto nella parte centrale, in eccessive ripetizioni e in qualche flash back grossolano che inficiano il buon lavoro svolto sull’introspezione dei vari personaggi. Shiraishi si riscatta verso il finale con una scena madre potente e ben costruita. Ma la sensazione di voler calcare troppo la mano resta.