ESISTE un posto in Cile dove Dio non è riuscito a separare la luce dalle tenebre. Dove i colori sono volutamente sfumati, pallidi, a volte dominati da una dissolvenza nebbiosa che non è messa lì a caso ma è ricercata, perché ci indica che stiamo entrando in un mondo costretto a fare i conti con il delitto e il castigo dei suoi protagonisti, ancora una volta presi come metafora dall’immenso regista cileno Pablo Larraín della sua stessa nazione. E penetrando in questo microuniverso ci accorgiamo di essere al cospetto di un altro film devastante, difficile, magnifico; che lascia il segno e incide. Arrivato con colpevole ritardo distributivo con oltre dodici mesi di distanza dalla assegnazione dell’Orso d’Argento di Berlino 2015, El Club solo in apparenza non fa parte della trilogia sul Cile che Larraín aveva iniziato con Tony Manero, proseguita con Post Mortem e conclusa con il più ottimistico e solare No, i giorni dell’arcobaleno. Anche qui c’è da eseguire il conteggio con ciò che è stato. Anche qui appare quell’assenza totale di speranza che lascia gli amanti di questo autore spiazzati e disorientati, affascinati e colpiti dalla lucida capacità di analizzare un incubo. Cupo e buio come Post Mortem, crudele e intriso di colpi di scena come Tony Manero, El Club proietta verso l’eccellenza assoluta la cinematografia di Larraín che conferma di essere uno dei registi più importanti del nostro contemporaneo.
C’È UNA VILLA a La Boca che domina scogliere e oceano. E individui che la abitano in compagnia di una donna. Allenano un greyhound e scommettono sulle sue vittorie nelle corse tra levrieri che osservano da una collina. Mangiano, pregano, perché sono preti, possono andare in paese solo dalle sei e mezza di mattina alle otto e quando cala il tramonto e nessuno può vederli. La loro è un’esistenza spettrale, terza rispetto a quella degli uomini. Quella villa è la prigione nella quale la chiesa li ha deportati perché ognuno di loro si è macchiato di un delitto: c’è l’omosessuale, il pedofilo, il connivente con le brutture del regime di Pinochet, uno che vendeva i bambini delle donne povere e un altro ormai anziano che guarda, osserva e non parla e del quale non si sa di quale nefandezze si sia reso protagonista. E poi c’è la donna, una suora laica, anch’essa dal passato contradditorio. Delitto e castigo formale, senza espiazione. Una prigione dorata dove complicità e stratagemmi vanno bene per accerchiare divieti e punizioni. In gabbia sì ma con la facoltà di essere il nulla civile e come tali proseguire indisturbati e abbandonati la loro esistenza materiale. Ci vorrà il suicidio di un nuovo arrivato, l’ingresso sulla scena di padre Garcia, un gesuita-psicologo pronto a fare pulizia e l’apparizione del personaggio chiave del film, Sandokan che Larraín usa come autentico fool shakespeariano, per mettere la morale di fronte alla amoralità attraverso una scelta che tra tutte è la più amorale e non vado oltre perché svelare la trama del film sarebbe un delitto.
QUELLA DI EL CLUB è una storia deflagrante di conflitti psicologici irrisolti. Nella villa di La Boca si respira il senso di quiescenza, si vive nel limbo di chi è in attesa del giorno del giudizio finale e risolutivo. Larraín usa la chiesa in quanto istituzione e potere per parlare d’altro. Prende gli stereotipi ormai abituali dei delitti sessuali commessi e tenuti celati-qui siamo sull’altra sponda di Spotlight– per giocare con i fantasmi individuali, con i demoni che i protagonisti si portano appresso. I quattro preti scomunicati che risiedono in quelle quattro mura è come abbiano coperto con un telo le loro nefandezze personali. Nell’intimo non provano il minino pentimento. Si sono già assolti, sono pronti per il paradiso. Sono esseri consapevolmente osceni e immorali, capaci di scontrarsi con il gesuita confutando le sue tesi e accuse. È un gorgo al quale nessuno si sottrae dove l’amoralità dell’uno trova sponda in quella dell’altro. Non ci sono gradi di colpevolezza. Tutti sono complici, legati a filo quadruplo da questa visione. Ne scaturisce un ritratto umano complessivo dove allo stesso tempo esiste una logica di questa amoralità, un gelido pragmatismo nell’analizzarla da parte di chi la mette in atto. Larraín, con la scusa di indagare su cosa accade nella casa, varca un universo nel quale assiste alla moltiplicazione dei Tony ManeroRaul Peralta, ovvero al moltiplicarsi di ciò che è senza etica. Ed è questa profonda discesa in un mondo popolato da demoni che a poco a poco sembra annullare in modo sorprendente tutte le speranze di una potenziale salvezza e redenzione. Perché anche l’angelo sterminatore- il film ha molti punti di contatto con Bunūel– alla fine si troverà imprigionato egli stesso in un gioco più grande di lui dal quale potrà uscire con la sua giustizia soltanto prestandosi a un tragico quanto drammatico compromesso con la propria coscienza e con la durezza della ragion di stato. Accettando un fatto appunto immorale, promuovendolo egli stesso con l’identica ambiguità di ogni personaggio che popola El Club.
SE IN MOLTI film si parla di perdita di innocenza, in El Club c’è la totale mancanza di questa già all’origine; persino nella figura di Sandokan, che è sì vittima del sistema e voce contro, capace di disequilibrare in modo radicale la quotidianità delle coscienze ma che porta in sè stesso, nel suo disadattamento, i germi della contraddizione come se anche in lui le luci e le tenebre siano incapaci di separarsi. Su questo gioco continuo di mancanza e ansia di chiarezza morale e visiva, Pablo Larraín costruisce un film impeccabile e rigoroso, permeato dal senso del ritmo, da una tensione che cresce a dismisura dal primo all’ultimo frame, da una fotografia di rara bellezza con le immagini dei protagonisti che si allargano fino a lambire un altro formato quando vengono intervistati dal gesuita tanto che i loro volti, vedere le scene con Alfredo Castro, si dilatano e paiono appartenere a un tempo precedente rispetto al film. Al passato, appunto. Quello che Larraín con El Club decide di mettere al cospetto del presente. Lasciando a chi osserva la doppia opzione per interpretare il finale, solo in superficie semplice e consequenziale a ciò che è avvenuto nel film. Si può vedere come la chiusura di un ciclo e quindi di poter finalmente parlare di un Cile liberato dai propri incubi o di voler sotterrare un’epoca confinando colpevoli e vittime per il sacrificio definitivo e per mostrare ad ognuno in ogni attimo le proprie responsabilità. Nell’universo di El Club è di grande forza anche la recitazione: da Roberto Farias, ovvero Sandokan a Antonia Zegers passando per il feticcio del regista Alfredo Castro aMarcelo Alonso, il gesuita, a Alejandro Goic, Alejandro Sieveking, Jaime Vadell sono tutti capaci di portare alla luce ambiguità, sfrontatezza, corrosione interiore, cinismo e rari sensi di colpa in un’opera nera come la pece. Bellissima,crudele e disperata.