Il cinema di Paolo Sorrentino è profondamente diverso da quello di Matteo Garrone. E’ l’ altro volto dell’eccellenza autorale che, con colpevole ritardo, viene riconosciuta in questi giorni, dopo il clamore suscitato a Cannes da << Il divo >> e << Gomorra >>. Se in Garrone a prelavere è la macchina da presa intesa come occhio vigile sulla realtà, come unico indagatore di ciò che viene mostrato, in Sorrentino l’occhio dell’obiettivo è il terminale della sceneggiatura. Non a caso il regista napoletano si diletta anche nella scrittura. Rispetto a Garrone è più letterario, più articolato, più autore- per dirla come piaceva ai << ragazzi >> della nouvelle vague francese – pretende la totale supremazia, il potere assoluto sull’opera che realizza. << Il divo >> è la naturale evoluzione di un discorso iniziato con << L’uomo in più >> e proseguito successivamente con << Le conseguenze dell’amore >> e << L’amico di famiglia >>. Un film ambizioso, presuntuoso se vogliamo, col quale era molto facile precipitare, sbagliare. Con l’incoscienza propria del talento superiore, con la sicurezza che gli deriva dai mezzi che madre natura gli ha donato, Sorrentino affronta il personaggio politico più controverso della storia del secondo dopoguerra, Giulio Andreotti, mettendo in scena una commedia del potere che è anche riflessione sull’etica del potere stesso, diversa da quella privata, che << è male per raggiungere il bene >>. E’una delle rare occasioni in cui il cinema italiano si cimenta con persone viventi. Segue la decadenza del << divo >> Giulio poggiandosi sulle solide spalle di Toni Servillo – semplicemente grandioso nella propria bravura, con buona pace di Barbareschi- , senza il quale l’intero film potrebbe scivolare nella macchietta. Certo la lettura politica di Andreotti da parte di Sorrentino è << a tesi >>, si basa fin troppo sugli atti del processo per mafia del 1999, sulle ricostruzioni giornalistiche dei tanti misteriosi delitti che hanno insanguinato l’Italia dagli Anni’70 nelle quali il cognome del senatore è sempre stato tirato in ballo e, alla fine, offre presunzioni di colpevolezza ma nulla più. E’la parte del film che meno mi è piaciuta, forse perché le << tesi >> al cinema sanno sempre un poco di saccenza ed è per questa ragione che, ad esempio, Michael Moore non mi è mai andato troppo a genio. Ma Sorrentino è strepitoso nel modo con il quale imposta il film, come lo gira, come riesce a caratterizzare i vari personaggi, il lavoro di lobbies della politica, il sottobosco, la differenza tra Andreotti e gli uomini che gli sono stati vicini. Da una parte il << divo >> che vive per un potere superiore, a torto o a ragione, indirizzato alla ragion di stato, dall’altra l’allegra combriccola dei lecchini e dei portaborse, capaci di ogni tradimento, di cambiare bandiera, di seguire la convenienza. Si avverte, pur nella condanna << morale >>, una certa tenerezza con la quale Sorrentino mitiga la propria personale distruzione dell’Andreotti politico. E’ infatti nelle domande che Servillo si pone, nell’incredulità, nella non comprensione dei motivi per il quale il mondo gli sta crollando addosso, che l’uomo Andreotti diventa fragile, umano tra gli umani, sconfitto forse dalla storia ma ligio a sé stesso, alla sua idea, fino in fondo. Quasi che lo stesso regista intuisca << l’insostenibile pesantezza >> del potere e la sua drammatica, amorale necessarietà. Già prima de << Il divo >> adoravo Paolo Sorrentino. Ha il tocco di chi conosce la storia del cinema, la mano di chi sa impreziosirla e personalizzarla, l’originalità di affrontare sempre nuove sfide, di cambiare argomenti, di rendere questo percorso completo per scrittura e per stile. E se sono riuscito a entusiasmarmi per un film con il quale non mi trovo << politicamente >> d’accordo significa che oggi l’adoro ancora di più.