È l’Italia di Bettino Craxi e del pentapartito al governo, della fuga di Licio Gelli dal carcere svizzero di Champ Dollon, dei manifesti elettorali appesi agli angoli della piazza di paese, delle discoteche estive, delle partite di pallavolo sui prati, dei tuffi nel fiume, delle corse in bicicletta lungo gli argini della campagna. È l’Italia del 1983 con la sua estate calda, il suo tempo da proteggere e racchiudere, incastonare nella memoria come l’amore tra due ragazzi. È un’Italia della memoria, sognata, dove le vetture che transitano per il centro di Crema sono quasi tutte di un decennio prima come le Alfa GT, le Fulvia Coupé, la Triumph TR3 o la Fiat 128 blu scuro della famiglia protagonista . Come se quell’anno, il 1983 appunto, rappresentasse uno spartiacque, un confine tra il prima e il dopo e non un semplice durante. Tempo da fissare, da portare in una dimensione altra, tra l’onirico e la riflessione. La vita sembra un sogno e quello spazio dove desiderio, corteggiamento, appagamento e senso della perdita si susseguono come il giorno e la notte diventa per Luca Guadagnino l’autentico protagonista di Chiamami col tuo Nome.
È il grande merito del regista siciliano: essere riuscito da una storia all’apparenza banale, quasi elementare, di semplice innamoramento-il fatto che sia tra persone dello stesso sesso è ininfluente-a inventarsi un film importante che forse non vincerà nessuna delle quattro statuette dell’Oscar a cui è candidato ma che conferma le qualità dell’autore probabilmente più raffinato tra gli italiani, qui alla sua opera più matura e costante; dall’inizio alla fine.
Non era semplice ma ci è riuscito. Il cinema di Guadagnino ha nella forma il segreto e a volte il limite più grande. Qui invece i conti tornano: la forma è il contenuto; l’amalgama è radicale, assoluto, totale. L’amore tra l’aspirante compositore e musicista e il dottorando USA che arriva nella villa del’600 nella campagna cremasca si trasforma nel racconto di un mondo immaginario, fatto di comprensione, di apertura mentale, di condivisione. È un percorso di crescita indicato da Guadagnino agli spettatori. La base di questa viene dalle parole che a loro volta provengono dai tanti passi di libri citati e letti. Gli stessi che riempiono la biblioteca paterna . Parola e i suoi significati precisi di Chiamami col tuo Nome sono l’asse portante, spiegano la vita e quindi non possono trasformarsi in altro che non sia acquisizione, consapevolezza di un sentimento per nulla sdolcinato, esperienza di desiderio, di ansia, di apnea, di ricordo. Da conservare. È un percorso di formazione che va al di là del puro connotato sessuale; Guadagnino entra in una dimensione superiore: lo spazio che riempie è denso di significati, di allegorie, di rimandi e se a volte si ha l’impressione di alcune lungaggini ci pensa un finale maestoso a diradare i dubbi. La vita va vissuta. Solo così è possibile non farsi corrodere dal tempo: agli umani appartiene la possibilità di sospenderlo, di fissarlo nel proprio intimo.
Per vivere questo tempo biblioteca, Guadagnino usa il mezzo che parla per immagini: il cinema. Quello grande che non lascia sul campo indecisioni o inciampi. La forma è nella ricerca del particolare, nell’iperealismo spinto all’estremo quasi a voler portare il reale nella favola. L’indagine sul corpo è meticolosa. Così come professore e studente catalogano i busti emersi dalle acque del Lago di Garda, Guadagnino scompone, analizza le forme dei suoi straordinari protagonisti, cogliendone i mutamenti. Gli stessi che accadono al mondo che li contiene. È un movimento circolare. Tutto infatti in Chiamami col tuo Nome ruota, si muove, agisce. I bigliettini lasciati sotto la porta ai quali vengono date le giuste risposte, la musica di Bach suonata in varie forme, gli indumenti che emanano fisicità-senza che il regista scada nel morboso-e che vengono posizionati in modo sempre differente ai bordi o sopra il letto, la polvere di un solaio segreto che sembra proteggere, l’orologio che scandisce le ore in attesa della mezzanotte e di un desiderio che potrebbe avverarsi. Ruotano, fisicamente, Elio e Oliver nella loro dichiarazione d’amore ai piedi della statua in onore dei caduti del Piave. Urlano il proprio amore prendendo direzioni diverse e parallele. Concludono ritrovandosi al centro:insieme, uniti.
Pudico anche nelle scene più spinte, in grado di mostrare allo spettatore ciò che non si vede ma si può immaginare, Guadagnino fa cinema che giustifica parola e musica: fa parlare ciò che mostra, mostra ciò che è scritto: la piena aderenza tra vita e arte. Non è un caso se Elio regala alla provvisoria fidanzata le poesie di Antonia Pozzi, autrice cara al regista e al direttore della seconda unità, Ferdinando Cito Filomarino che proprio con Antonia, prodotto dallo stesso Guadagnino, uscì due anni fa con uno dei migliori film italiani. Pozzi infatti è il simbolo stesso di un’aderenza radicale tra testo e vita. Di quel film Chiamami col tuo Nome riprende una scena molto simile, trasportandola dalle pendici della catena delle Grigne alle cascate del Serio, dove è innegabile, istintivamente, non lasciarsi andare al confronto, a ricordare la similitudine, la stessa mano che conduce così come di Antonia si respirano alcune atmosfere, gli interni, le pose dei corpi che dormono, i chiaroscuri usati, i silenzi che urlano nella maestosità e spesso nella dolcezza dei paesaggi.D’altronde il direttore della fotografia è lo stesso: Sayombhu Mukdeeprom, quello de Lo Zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti. Ed è attraverso le parole di Pozzi che la fidanzata del protagonista riesce ad accettarne l’innamoramento proibito, la sua condizione.
Il limite di Chiamami col tuo Nome risiede in alcune insistenze che a volte ne rallentano il ritmo; in sede di postproduzione avrebbero potuto essere asciugate. Però è chiaro che si tratti di opera di un regista che ha la grande capacità di parlare di una nostalgia, di fissare un passato alla stregua di un ideale a cui tendere: “Dicono che c’è un tempo per seminare e uno più lungo per aspettare. Io dico che c’era un tempo sognato che bisognava sognare”. Lo scriveva Ivano Fossati in una delle sue canzoni migliori. Guadagnino lo fa suo, partendo da una sceneggiatura di James Ivory, ampiamente modificata dal regista siciliano e da Walter Fasano, trasportando la Liguria del 1988 dell’omonimo romanzo di André Aciman-qui protagonista di un cameo con il produttore Peter Spears– alla bassa cremonese del 1983, scegliendo due interpreti eccezionali:Timothée Chalamet, candidato all’Oscar come miglior protagonista, e Armie Hammer terminali di un cast dove nessuno è fuori posto. Il cinema non spiega tutto recita Elena Bucci in una delle scene corali che potrebbero essere considerate meno influenti. È vero però a volte dona tanto. Come la bellezza delle immagini, la tensione delle scene, le zone d’ombra e i misteri che Guadagnino ci consegna. Andando a ritroso nel tempo, portandoci nella sua sospensione, invitando a riappropriarci di noi stessi.