Basta essere curiosi e prima o poi ci si imbatte sempre in qualcosa di interessante: l’altra notte, viaggiando su una piattaforma, sono rimasto incuriosito dal titolo di questo film che, presentato al Festival di San Sebastian del 2017, poi in quello di Toronto del 2018 e mai giunto nelle sale italiane, aveva ricevuto commenti interessanti da parte degli addetti ai lavori britannici. È Apostasy, sorprendente opera prima dell’inglese Daniel Kokotajlo, autore che già al debutto nel lungometraggio dimostra di possedere una fortissima personalità e una solida capacità narrativa, semplice, efficace, profonda. Bisogna essere molto bravi, infatti, per non cadere nella banalità e nello scontato nel trattare le tematiche legate ai Testimoni di Geova e nel contempo costruire attorno ad esse un film credibile, profondo, curioso. In poche parole quella che si definisce un’opera intelligente.
Kokotajlo mette in scena il suo cinema non rinunciando a un incipit potente ed importante: entra infatti al centro del primo e più scontato dei problemi che tutti conoscono riguardo questa << religione >>: una ragazzina si confronta soprattutto con se stessa e con la propria fede domandandosi se accettare o meno una trasfusione. Pena la perdita della vita. Ed è da questo confronto tra l’istinto di sopravvivenza e il dogma superiore che Apostasy si sviluppa e si evolve appunto in forma narrativa intelligente. Per Kokotajlo sarebbe stato più semplice privilegiare l’aspetto privato o quello pubblico. Invece lega in modo indissolubile le problematiche del piccolo nucleo familiare tutto al femminile a quelle della ragion di stato religiosa, mettendole in continuazione una a confronto con l’altra, insinuando l’occhio della cinepresa all’interno delle riunioni, nel direttorio, nelle missioni di << conversione>> di fede-in lingua urdu– che a turno le ragazzine devono compiere bussando porta a porta nelle abitazioni degli immigrati pakistani della contea di Manchester. E mentre questo aspetto pubblico si svolge, accolto dalla sorella maggiore come una costrizione e da quella minore come una benedizione, in quello privato accadranno due eventi che ribalteranno la scena: una cacciata dal regno e una perdita che porteranno il confronto tra dogma e coscienza individuale a trasformarsi in uno scontro vero e proprio. Se nella prima parte Apostasy fa intuire, nella seconda fa esplodere il dramma legato al dilemma morale ponendo una serie di domande solo in apparenza semplici: può una madre non essere devastata dal senso di colpa per aver permesso che una figlia morisse e che un’altra venisse cacciata dalla comunità e dalla stessa famiglia solo perché gravida di un uomo non sposato e non appartenente a quella religione?
È qui che i personaggi di Kokotajlo cercano risposte sempre meno banali alle tante domande. Al centro del racconto viene posta appunto una madre che è divisa tra l’obbligatorietà del proprio credo e l’amore naturale verso l’unica figlia rimasta, quella cacciata dal direttorio e che va riconvertita nel tempo. Per contro la stessa divisione condiziona l’esistenza della giovane donna che da un lato cerca di riavvicinarsi al genitore nell’unico modo possibile per l’istituzione religiosa e dall’altra non riesce a frenare il legittimo desiderio di non subire imposizioni. È uno spaccato privo di retorica o di tesi precostituite che l’autore tratta con competenza-essendo stato a sua volta un testimone di Geova- e che pone le problematiche dalle due ottiche: << ufficiale >> e << privata >>. La convinzione che dopo l’Armageddon un nuovo sistema donerà ai fedeli il paradiso terrestre, facendo tornare in vita chi ha rispettato la fede e la disperazione che lontano dalla chiesa, nel buio di una stanza come alla luce di un ufficio attanaglia chi segue gli ordini supremi. Se condanna arriva è per un credo crudele , preso forse a simbolo di tutte le teocrazie e religioni intransigenti, non per i suoi adepti, che subiscono condizionamenti morali capaci di incatenare ma non sopire i più genuini sentimenti naturali. Che restano ma devono piegarsi al sistema procurando un travaglio morale.
Apostasy vive di silenzi che parlano; l’ottica del regista si sofferma sui primi piani dei personaggi, ne indaga i dubbi e nel contempo documenta senza ansia di retorica un mondo che sembra molto distante ma che è presente, reale, numeroso. Fa un film intimo parlando di un tema in ogni caso sociale e ci riesce in modo importante, non rinunciando alle esigenze della finzione. Straordinario tutto il cast con Siobhan Finneran, nel ruolo della madre, perfetta nel far emergere con delicatezza il proprio conflitto interiore e le due figlie, Molly Wright e Sacha Louise Parkinson, altrettanto brave nell’esprimere i differenti caratteri a fronte della medesima educazione religiosa. Una nota di merito va anche a Robert Emms che nel ruolo di Steven è l’ago della bilancia di tutto il racconto: il giovane testimone scala le gerarchie del direttorio e scandisce, dal momento della sua apparizione nel film, le dinamiche dei suoi personaggi. Un individuo esaltato dalla fede ma non scevro, nemmeno lui, di dubbi e di sentimenti. Emblematica la domanda che pone alla madre della ragazza scomparsa sulla possibilità di potere sposare la figlia una volta che sarà compiuto il paradiso terrestre. Apostasy si può vedere sulla piattaforma di Amazon Prime in lingua orignale con sottotitoli in italiano.