PREMESSA 1:non reggo la musica folk. Sono rockettaro ad oltranza.Premessa 2: adoro i gatti, se sono rossi possono fare di me quello che vogliono. Sarà per queste due considerazioni semplici-semplici che il giudizio sull’ultimo film dei fratelli Coen è un po’così, diviso tra la stroncatura per eccesso di dosi di valeriana sparate nella vena dello spettatore -tipiche della musica folk- e l’applauso che si deve a chi ama i gatti più fuori di testa tra tutti, i rossi appunto che potrebbero trovare il loro corrispettivo cinematografico proprio nell’accoppiata dei fratelli per antonomasia del cinema a stelle e strisce. Perché sarà pur vero che << A proposito di Davis >> ha vinto il Grand Prix della giuria a Cannes (se è per questo anche il soporifero e bruttissimo << Lo sconosciuto del lago >> si è portato a casa un premio minore ) ma è altrettanto vero che questo con i film migliori dei Coen c’entra come tricchi e berlicchi. E guardate non è prevenzione la mia: chi mi conosce sa che potrei battermi con qualsiasi tipo di arma pur di difendere i Coen dai pochi che li criticano. Eppure << A Proposito di Davis >> funziona a intermittenza, non offre i tradizionali colpi di genio del duo, è amaro e disincantato come tante altre loro opere ma nulla aggiunge alla loro cinematografia. E non fa nemmeno ridere se non a tratti. È un film bofonchiante, dove la lampadina dei geni è fioca e poco alimentata. Certo trattasi sempre dei Coen e guai a toccare le divinità in terra ma non ho notato in << A proposito di Davis >> il colpo a sorpresa, l’improvvisa e inattesa capacità di ribaltare con un paio di frame una storia che si credeva già scritta. Per nulla, qui tutto è telefonato, prevedibile. Il perdente di << A proposito di Davis >> lo è dall’inizio alla fine e non riesce a farci appassionare, nemmeno a identificarci, noi che perdenti lo siamo di professione, con lui e la storia che viene raccontata. Insomma tanto eravamo rimasti estasiati dall’intelligenza e dalla genialità di << A Serious Man >>– http://guido.sgwebitaly.it/articoli/limpotente-religione-dei-fratelli-coen/- quanto siamo usciti perplessi da << A Proposito di Davis >> che di quello dovrebbe essere una logica appendice. Monca però, perché sono carenti sia la profondità del discorso sia la fantasia grottesca che permettevano allo spettatore di essere tutt’uno con il protagonista del film del 2009.
È RISAPUTO quanto Dave Van Ronk abbia inciso sull’evoluzione del folk nella storia musicale americana. Fu un precursore, uno che ebbe il coraggio tra la fine degli Anni’50 e i primi ’60 di << esportare >> a New York un tipo di musicalità propria di altre zone degli Usa, di attualizzarla. Ballate che diventavano occasione per riflettere, per fare un discorso sul presente, per portare le problematiche individuali in primo piano. Grazie a Van Ronk la scena newyorkese scoprì la versione contemporanea del cantastorie e grazie a lui nacquero nuovi stili, sdoganando la parola come base stessa della canzone. Bob Dylan ne fu l’esponente di spicco mentre Van Ronk non ebbe la stessa fortuna e capacità. Troppo ancorato al passato per essere avanti nel proprio discorso, troppo moderno per essere compreso dai contemporanei.Alla sua biografia i fratelli Coen si sono ispirati per costruire il personaggio di Llewyn Davis, uno che parafrasando Pavese << who tried but didn't know >>. Sì, uno che ci ha provato ma non è riuscito. Così i fratelli seguono una settimana, quella emblematica di chi diventerà Davis. Uno che dopo il suicidio del compagno di duo si è messo in proprio, esibendosi in un locale di New York;che è gestito da un manager anziano che non gli procura un contratto che uno; che è sempre in bolletta e costretto ad arrangiarsi e/o scroccare per trovare un letto per dormire. Uno che è artista in quanto tale e vive la propria condizione certo solo delle sue capacità. Tutto il resto è il mondo che lo circonda e che quasi sempre gli crolla addosso. Laddove persegue un ideale di purezza e di coerenza ecco che né gli uomini né le cose sembrano accettarlo. Anzi si ha quasi sempre l’impressione che la figura di Davis serva per riempire i buchi, le carenze. Siano esse musicali se manca uno strumentista in sala di registrazione, siano quelle sessuali quando mettiamo il compagno della fanciulla di turno è da qualche altra parte. È un perdente di talento che non sa come fare per percorrere la strada che dovrebbe seguire. È capace, persino benvoluto, non ha nemmeno grandi nemici, eppure con lui non scatta mai la scintilla in grado di ribaltargli l’esistenza. È figlio di un marinaio che vive in stato semivegetativo in un ricovero, fratello di una donna che lo rimprovera, è stato di sicuro amante della ragazza di un amico che forse aspetta un figlio da lui e che comunque non perde occasione per disapprovare il suo comportamento. E nemmeno se approfitta di un viaggio a Chicago per guadagnare qualche soldo riesce a trovare serenità: il jazzista che accompagna gli rimprovera che il jazz si suona con tutte le note, il folk è sempre lo stesso strimpellare. E il talent scout al quale cercherà di imporsi, gli dirà che il suo modo di cantare e comporre non aiuterà nessuno a fare soldi. Davis quindi si aggira per il mondo stritolato da una spirale di negatività che nulla riuscirà mai a modificare. Siamo nel 1961, in << A Serious Man >> i Coen ci avevano portato nel 1967. Anche il professor Larry Gobnik assomigliava a Llewyn Davis: credeva nei numeri, nella certezza delle formule matematiche e gli crollava il mondo addosso e attorno. Ma si confrontava, lottava per trovare risposte alle tante domande. Le chiedeva alla religione, ai rabbini e la sconfitta finale era generale. Era un uomo allucinato dalla sfortuna ma vitale. Davis, nonostante illustri pareri contrari, non lo è. Non reagisce, cavalca come un surfista l’onda del fallimento, resta nel suo limbo. Si muove per non arrivare da nessuna parte. E non è un caso che il film inizi da dove finisca e si concluda dal proprio inizio. La vita di Davis si muove sempre sullo stesso cerchio. Punto di partenza equivale a quello di arrivo. È quasi come la figura del gatto rosso – centrale nel film – le cui fughe per la libertà sono innumerevoli ma alla fine ci sarà il ritorno a casa.
GIÀ L’AMATO GATTO rosso. Che in << A proposito di Davis >>è attore nel senso letterale della parola:i suoi sguardi interrogano, il suo osservare il mondo che corre, le insegne delle stazioni del metrò, indicano la condizione di Davis stesso. Entrambi accomunati dal desiderio di libertà e di non sottoporsi alle regole. Solo che il gatto rosso del film ci prova e poi, quasi per scelta, ritorna oppure un altro gatto, forse lo stesso oppure no, non importa è pura allegoria dei Cohen, si ferisce per quest’ansia di essere indipendente e camminerà zoppo chissà dove. Con Davis tutto questo non accade, come se i Coen abbiano preso spunto dalla storia per dimostrarci che tutto è inutile, al destino in ogni caso non si sfugge. Hanno così costruito un film amaro sotto la forma del racconto para musicale, di una commedia che non sfocia mai nel noir, che resta sempre a metà strada dalle intenzioni. Né tragica né divertente, né assurda. Troppo controllata, troppo riflessiva, troppo per bene. Poco graffiante. Resta però un film dei Coen: ambiente, fotografia sono perfetti, così come l’immagine che il duo ci offre di quell’epoca musicale. Oscar Isaac è un perfetto Davis: lo seguiamo passo dopo passo nelle sue iellatissime imprese, lo ammiriamo quando imbraccia la chitarra e si mette a cantare (bene). Carey Mulligan, destinata ormai a diventare una trasformista, qui fa la cantante di un duo e l’ex amante-amica di Davis: ragiona bene, razzola male. Più di contorno la parte di Justin Timberlake mentre a John Goodman bastano venti minuti per << segnare >> e nobilitare il film. Con il gatto rosso è uno dei motivi per i quali non si rimpiange il prezzo del biglietto. Per il resto i Coen hanno fatto di meglio. Qui sono un poco come il loro protagonista: si adeguano e poco inventano.