A BEN VEDERE << Gli amori folli >> di Alain Resnais mi rimanda ad alcuni romanzi di Paul Auster. Accade spesso nell’ampia produzione dello scrittore statunitense di trovarsi al cospetto di opere nelle quali il narratore conduce il lettore proponendogli ipotesi di narrazioni, offrendo ai propri personaggi varie alternative, di modo da modificare in continuazione il rapporto tra causa ed effetto. Nell’ultimo film di quello che è uno dei grandi non solo del cinema francese accade un po’ la stessa cosa. I due protagonisti accanto ai quali ruotano altri due personaggi cosiddetti minori, di sostegno e giustificazione, si muovono sulla scena proponendo, attraverso una voce narrante, ipotesi. Sono due tipi di cui conosciamo solo ciò che vediamo: dell’uomo sappiamo che è borghese, ha una splendida moglie più giovane, due figli, ogni tanto ci rammenta di possedere un passato per il quale dovrebbe avere ricevuto una certa notorietà, probabilmente negativa, e della quale nulla ci è dato da sapere di più. Della donna solo che è dentista, ha la passione degli aerei, ha fatto restaurare uno Spitfire e quindi dovrebbe essere considerata una non omologata, quasi un retaggio di quelle eroine dalla forte personalità che tanto entusiasmavano nei tempi antichi. Alain Resnais li prende entrambi nel pieno dell’anzianità. Lei ha bisogno di scarpe comode, particolari, lui di dare un senso a un’esistenza che sembra scandita dai piccoli lavori domestici di chi ha un passato e un presente senza nulla, all’infuori dell’immagine gozzaniana del buon padre di famiglia. Cosa potrebbe accadere tra lei e lui se il caso li facesse incontrare? ALAIN RESNAIS ci conduce nel proprio gioco. E’molto francese nel farlo: al narratore affida una storia, ai personaggi un’altra che sembra identica ma che invece smentisce puntualmente ciò che viene detto dal terzo. I piani vengono mischiati e contraddetti, l’amore è il leit motiv per offrire allo spettatore una lunga sequenza di battute alla Feydau, e una riflessione senza partecipazione autorale sulla natura umana. << Gli amori folli >> è un film freddo nel proprio pragmatismo quanto << Cuori >> era bollente nell’esprimere l’impossibilità concreta del sentimento e dell’unione. Per arrivare all’estremo della razionalità, Alain Resnais usa il divertissement che non è solo il sorriso e il piacere della battuta ma la riflessione amara sulla natura umana. Gli individui anziani di << Gli amori folli >> sono come l’asfalto incrinato da fessure che ci viene proposto nei titoli di testa e che qua e là fa capolino in varie scene. In mezzo a queste micro voragini, a questo senso di decadimento, di disfacimento e incuria, spunta erba spontanea: erbaccia o segno di vita, << Les Herbes Folles >>? Dipende dall’ottica con la quale la osserviamo. Così Resnais ci porta in un mondo dove le parole non corrispondono ai fatti, le une smentiscono sempre gli altri, in un lungo gioco che solo all’apparenza potrebbe apparire intellettuale e fine a sé stesso. La passione diventa tale nel momento in cui le parole la negano, nella vecchiaia non c’è nulla di diverso dalla gioventù, è l’idea dell’amore che determina le azioni e che alla fine è l’unica regola di base dell’esistenza. L’umanità rappresentata dai personaggi di André Dussolier e Sabine Azema ha una profonda coscienza dei labirinti beckettiani nei quali si muove. Sono zombie che agiscono per attaccarsi a un’idea di come potrebbe essere e questo condizionale ci offre il maestro con un finale affidato guarda caso a una bimba che lancia un quesito solo all’apparenza assurdo alla madre: <<Quando diventerò gatto potrò mangiare il croccantino ?>>. Ecco in questa battuta che non c’entra nulla con la storia che lo spettatore sembra di vivere- ma ripetiamo solo in apparenza- è affidata la morale di un film diverso, nel quale Resnais si è divertito a giocare con i luoghi comuni non tanto del proprio cinema ma della sua stessa filosofia del mostrare e dare. Ponendo un altro tassello – qualcuno sostiene si tratti di un testamento ma si spera non sia così- alla lunga ricerca di un motivo che sappia giustificare il nostro stare nel mondo. Come per confermarci che il caso e il mondo delle idee alla fine sono gli unici comuni denominatori esistenziali. Tutto il resto è teatro dei pupi, nel quale viviamo e per il quale siamo costretti a inventarci una realtà altra. Forse inesistente ma fondamentale perché è solo grazie a questa che l’individuo resiste e giustifica il proprio senso di essere.