CI SONO film capaci di emozionare, di coinvolgere la sensibilità unita alla ragione, di consentire di vivere in prima persona ciò che accade dentro lo schermo; di restarne colpiti, impressionati, quasi coesi. ROOM che ha consentito a Brie Larson di conquistare una meritata affermazione nella corsa all’Oscar come miglior attrice protagonista fa parte di questi. Merito del suo regista, l’irlandese LENNY ABRAHAMSON: ai più il suo cognome può dire poco ma in realtà è il padre di altri piccoli gioielli della cinematografia europea: Adam&Paul del 2004 il delicatissimo ma tragico Garage del 2007, Frank del 2014 e What Richard Did del 2012. Opere che già davano l’idea di essere in presenza di un autore molto personale, uno che il cinema lo fa senza l’ambizione di parlarsi addosso o di autocitarsi, senza la spocchia di essere autore con l’A maiuscola e soprattutto di avere di fronte un regista profondo conoscitore della macchina cinematografica e della capacità di andare alla caccia di soggetti e sceneggiature dotate di senso compiuto. Sarebbe stato semplice creare con Room una sorta di thriller, mettiamo con risvolti nerissimi e una tensione esagerata. Invece non è così: Room è infatti un film che della raffinatezza intellettuale, del decoro, del pudore fa le proprie bandiere per addentrarsi in un territorio ancora più oscuro della sua stessa trama. Perché qui si parla non di una ferita-sarebbe troppo semplice- bensì di un trauma nel quale si entra e si esce soltanto nel momento in cui i protagonisti dimostreranno di essere in grado di percorrere l’esistenza con le proprie gambe. Un’operazione per nulla semplice e facile. Ci vogliono un grande regista e una sceneggiatura perfetta per riuscire nell’impresa, cosa che a Abrahamson e alla scrittrice Emma Donoghue, autore del libro dal quale è tratto il film e sceneggiatore dello stesso, riesce nel migliore dei modi possibili. Creando empatia, facendo palpitare e fremere ma anche riflettere; tanto.
ROOM è liberamente ispirato al caso di Elisabeth Fritzl, la donna austriaca che per ventiquattro anni venne segregata e violentata dal padre mettendo al mondo sette figli. Nel film, come nel romanzo di Donoghue, l’azione è diversa: non siamo più in Austria e soprattutto c’è una ragazza imprigionata in un capanno sigillato che vive con il figlioletto di cinque anni frutto di una violenza subìta dal suo sequestratore, il vecchio Nick. Ma non è questo che interessa ad Abrahamson. Ciò che il regista vuole mettere in luce è la straordinaria relazione che esiste tra madre e figlio. L’una dipende dall’altro e viceversa. In quella stanza di pochi metri, dove ogni oggetto ha un nome, la ragazza cerca di ricreare per il piccolo Jack un mondo alternativo. Dove il nucleo dell’esistenza non si trova in quell’esterno che a Jack è del tutto sconosciuto ma là dentro. È un luogo beckettiano quello nel quale ci porta Abrahamson, non per nulla connazionale del maggiore drammaturgo del 900. Il senso compiuto dell’esistenza è là dentro, dove mamma Joy pur di donare al figlioletto un motivo per vivere, riesce a ribaltare qualsiasi senso del reale. Così la televisione si trasforma nella scatola in cui si sogna e si osserva l’irrealtà. Non c’è per il piccolo Jack alcun mondo alternativo al di fuori della stanza; non ci sono altri esseri viventi sulla terra per lui ad eccezione della mamma e del vecchio Jack che vede come un vecchio mago che ogni tanto porta regali e dorme accanto alla madre. Per un’ora il film riesce a reggere la tensione con il fraseggio, quasi musicale, creato dai due. L’abilità dell’autore è tale da far apparire quella stanza, che potrebbe portare alla claustrofobia, un luogo quasi familiare, un’oasi. Perché per gli spettatori l’ottica è quella di Jack, del bimbo. Che osserva, immagina storie, inventa favole, crea motivi mentre la madre cela la tragedia nella quale entrambi vivono, macerandosi, sentendosi condannata a una violenza quasi eterna. Ma poi le cose cambiano: nel personaggio di Joy nasce la consapevolezza di troncare la messinscena, di rendere partecipe il figliolo della crudeltà in cui è nato e rinchiuso. E con la ribellione si apre una seconda parte del film che sa di liberazione, di fuga, di ritorno alla normalità. Che non sarà per niente più semplice della prigionia.
IL FILM infatti prende un’altra piega, assai meno scontata di quanto si possa pensare. Abrahamson segue i suoi due protagonisti nel prima e nel dopo. La libertà acquisita diventa un fantasma capace di terrorizzare più del mostro Old Nick. Il bimbo scopre, ora dopo ora, non un nuovo mondo ma il mondo stesso. La madre ci ritorna ma si porta appresso una ferita non rimarginabile, il peso di un passato ingiusto che ha dovuto subìre, la consapevolezza di trovarsi impotente di fronte a tutti, anche alla propria famiglia d’origine, alla madre che negli anni della sua lontananza ha trovato un nuovo compagno, e al padre che rifiuta di vedere il nipote, reo di essere nato dalla violenza causata a sua figlia. Il vissuto nella stanza, con tutte le sue devastazioni, diventa quindi il freno psicologico che le impedisce di sentirsi parte di questo ritorno alla vita. Il regista indaga sui sensi di colpa, fa affiorare le ruggini, descrive la disgregazione che un fatto così devastante causa all’interno del nucleo familiare. È abilissimo nel mostrare cosa accade dopo un lieto fine, quanti fili psicologici si siano spezzati. Lo fa attraverso gli occhi di bimbo e mamma. Più Jack prende condifenza con la vita reale, maggiore è l’allontanarsi da questa da parte di Joy. Così cambiano anche i rapporti di forza tra i due. Se all’interno della stanza mamma Joy cercava la salvezza di Jack, nel mondo concreto è quest’ultimo che porrà il sigillo alla resurrezione di entrambi, mettendo la parola fine al passato, aprendo il cuore della mamma a un nuovo inizio.
CREDO che ROOM sia un film destinato a piacere a chiunque. Perché non ha zone buie o morte, perché è tenero, raffinato, intelligente, inusuale, soprattutto autentico. Non ci racconta frottole, non cerca il facile applauso. Tratta di una tragedia e lo fa mostrandoci i vari punti di vista, le conseguenze di un dramma che portano ad altri drammi. È toccante, commovente ma non in modo gratuito, mai esagerato, molto vero e concreto. Si rivede in ROOM la stessa mano che descriveva in GARAGE la flagellazione morale che un’accusa ingiusta causava a un uomo forse stupido e ritardato ma molto buono e onesto. Soprattutto puro.Qui il personaggio di Joy è tutt’altro che ingenuo: ha conosciuto la vita e il torto che questa le ha arrecato. Il suo buco nero è non riuscire più a credere di essersi salvata, di sentirsi un’esclusa perché vittima di un fatto criminoso che le ha rubato gli anni migliori. La resurrezione sarà metterla di fronte, con delicatezza, proprio a quel passato fisico, lo stesso che il suo bambino Jack decide di affrontare per trovare la conferma di quanto ormai ha compreso: che la stanza della prigionia non è più tale, non ha più una porta chiusa ermeticamente, ora è aperta e non può contenere fantasmi.
IL GIOCO della doppia salvezza è l’essenza stessa di ROOM. Un film bello, di grande qualità che si regge su un’interpretazione, anche questa doppia, ineccepibile da parte di Brie Larson e del piccolo Jacob Tremblay: loro due sono il fulcro dell’opera di Abrahamson che li descrive attraverso un continuo confronto, che segue i loro volti per coglierne ogni sfumatura, per rendere la moltitudine di emozioni ancora più centrali delle parole stesse. Non è un film urlato ma è un’opera dove ogni battuta non viene mai recitata a caso. Le frasi che emettono i protagonisti pesano, riempiono di significato anche i più piccoli particolari. Larson, struccata, impallidita, spaventata e devastata dal proprio dramma, merita l’Oscar nonostante si fosse presentata alla serata di premiazione come outsider di fronte a mostri sacri. Tremblay, dieci anni anche se nel film impersona un bimbo di cinque, sembra un professionista tanto grande è la sua capacità di trasmettere ciò che gli passa per la testa. E anche il resto del cast, intensa la prova di Joan Allen, non sbaglia un colpo. Merito della direzione di Abrahamson che sul pudore di descrizione ha edificato un monumento. Se alla fine, ma non solo, si piange non è perché ROOM sia un film ruffiano, di quelli che ti lanciano la lacrima a comando, genere che invece mi fa ridere sarcastico. È per via di un soggetto forte e parecchio scomodo che un regista bravissimo e con lui lo sceneggiatore riescono a trattare come se fosse una splendida, semplice storia. Ricordandoci in ogni istante che purtroppo non è favola.