Il regno d’inverno e della parola: la virata di Ceylan

LA NEVE che a poco a poco copre tutto, che intensifica la sua azione man mano che il film procede. La neve, fenomeno naturale costante in quasi tutta la cinematografia di Nuri Bilge Ceylan. Elemento scenico esplicativo di esistenze racchiuse in se stesse, portate a parlarsi addosso, alla recita quotidiana, all’impersonificazione di un personaggio. All’incapacità artificiale di mettersi a nudo. Fu così nel film che rivelò il regista turco a Cannes 2003, lo splendido e imperdibile Uzak; neve, ghiaccio e gelo cospargevano i protagonisti del meno felice Il piacere e l’amore del 2006. In tutta la cinematografia di Ceylan ciò che contiene le vicende umane, l’ambiente, viene usato come un pennarello fluorescente. Il luogo, il fenomeno naturale coordinato ad esso, servono a offrire ulteriori indizi per la miglior comprensione di tematiche spesso complesse, lontanissime dalla leggerezza di molti film contemporanei. Nuri Bilge Ceylan oltre che essere un grande regista è anche un fotografo provetto. Basta visitare il suo sito internet www.nuribilgeceylan.com per comprendere meglio quanto l’immagine non sia mai buttata sullo schermo a caso. Fotografia, inquadratura, contenitori rappresentano quindi un marchio di fabbrica che lega i primi film agli ultimi due, lo straordinario- lo scrivo perché sfido chiunque a contestarmi- C’era una volta in Anatolia, Gran Premio della Giuria a Cannes 2011 e il meno perfetto ma pur sempre eccellente Il regno d’inverno che proprio quest’anno ha trionfato regalando alla Turchia e al suo autore la Palma d’Oro del festival francese. Eppure qualcosa è cambiato nella cinematografia di Ceylan e nelle apparenti <<dinamiche immobilità>>-vedasi a proposito una mia riflessione su questo blog- del suo cinema. Se prima l’Antonioni del Bosforo, come qualcuno lo ha soprannominato, esprimeva l’incomunicabilità tra gli individui attraverso un silenzio che valeva più di mille parole, ora si è totalmente aperto al dialogo, alla riflessione a voce alta, allo script quasi teatrale, con battute mai lanciate a caso, ma meditate, spesso complesse, che impongono agli spettatori un’attenzione non superficiale. È un pregio che però rischia di appesantire l’opera finale come accade appunto a Il regno d’inverno. Grandissimo film, giustamente premiato, profondo come le acque di un oceano, ma ridondante di parole in alcune scene. Così Ceylan rischia di avvitarsi, di diventare egli stesso uno dei suoi personaggi, di parlarsi addosso per eccessiva ansia di non cadere nel banale. È il limite che ho notato- parere personale sia chiaro- in questo film lungo 190 minuti, formalmente perfetto, di una bellezza davvero rara, recitato in modo superiore da un cast strappa applausi. Un film che si sfoglia come un libro, che si ascolta come un dramma teatrale, che resta e che probabilmente imporrà una visione ulteriore, ancora più fredda, per cogliere l’importanza di tutte le battute e la perfezione della loro scrittura.

AYDIN è ricco: gestisce l’hotel Othello, in Cappadocia, in una zona isolata ma bazzicata dai turisti. Aydin è anche un ex attore di teatro che ha conosciuto persino Omar Sharif quando questi girava da quelle parti Monsieur Ibrahim e i fiori del Corano; ma non solo: questo raffinato signore che non guida l’automobile, ci pensa il suo tutto fare, che non ama nemmeno occuparsi in prima persona di riscuotere gli affitti delle proprietà ereditate dal padre, scrive opinioni e riflessioni per un giornale locale di scarsa fama. Assieme a lui vivono la giovanissima moglie Nihal che se ne sta per proprio conto e la sorella separata dal marito Necla, oltre appunto alla servitù. Esistenze che quasi mai si incontrano nella stupefacente architettura di un albergo incastrato nei monti, in cui ogni ambiente è ricavato dalla roccia. Come le vite dei tre, ognuno dei quali sembra fingere a se stesso ciò che è e in cui solo la sorella ha, sebbene non totalmente, una tardiva presa di coscienza. C’è il mondo esterno ne Il Regno d’Inverno che è di una bellezza assoluta. In apparenza inaccessibile ma che contiene la grande contraddizione di essere frequentato nelle stagioni calde dai turisti.Paesaggio ideale, quindi, per incentrare il dramma che Ceylan vuole mettere in scena. Perché basta un piccolo fatto casuale, una pietra lanciata da un ragazzino contro l’automobile di Aydin, per modificare all’improvviso lo status quo, la pesantezza del non cambiamento. Per iniziare un reciproco gioco al massacro in cui a essere al centro del bersaglio è comunque sempre Aydin, colui senza il quale le esistenze delle due non sarebbero le stesse. Ognuno esprime verità parziali, ognuno segue le proprie ottiche e i propri interessi individuali. Ognuno è prigioniero della maschera che si è creato o ha voluto crearsi. Ognuno è il carceriere di se stesso. Non esistono i buoni e i cattivi in questo film. Non ci sono caratteri all’opposto: nessuno è mai troppo; tutti, anche i personaggi di contorno che danno vita alla trama, hanno colpe da espiare. L’innocenza forse risiede solo nel ragazzino, che non parla mai, che sviene all’atto di baciare la mano come segno di pentimento, che come ideale ha quello di diventare poliziotto, sua unica battuta in tutto il film.

COSÌ a esplodere sono le contraddizioni dalle quali nessuno sarà indenne. Non lo può essere Aydin, colui che per attirare i turisti nell’albergo si è inventato anche foto di cavalli che non ci sono; colui che è buono, democratico, accondiscendente, gentile con chiunque ma è schifato dalla sporcizia degli affittuari; che non crede e non professa alcuna religione ma scrive strali contro gli imam solo perché ha un contenzioso economico aperto con uno di questi; che spia in continuazione la moglie, fingendo di lasciarla libera ma facendole pesare l’agiatezza trovata grazie a lui. Eppure Aydin è il personaggio migliore perché la moglie vota la propria vita alla beneficenza artificiale, alla misericordia di facciata, agli ideali astrusi e alti che possono consentirle di avere una parvenza di ruolo nella società. Perché la sorella è bravissima a mettere uno specchio di fronte a Aydin ma è la prima a nascondersi le proprie verità. In tutti e tre c’è poi la parola magica di una meta che sembra il rifugio ideale per la fuga, Istanbul. La capitale del Bosforo come luogo nel quale ognuno dichiara di voler tornare, per rompere con il passato e per ritrovarsi. Succede di tutto nelle tre ore e mezza del film e non accade nulla. Nessuno manterrà i propri propositi. La presa di coscienza sarà anch’essa un artifizio per andare avanti probabilmente nello stesso modo. Aydin proseguirà a scrivere un libro sulla storia del teatro turco, sua moglie a osservare il mondo dalla finestra. Con un dominatore incontrastato: Aydin, i cui occhi vivaci illumineranno il finale per farci comprendere che nessuno riuscirà per davvero a uscire dalla recita della vita. L’immutabilità di Ceylan, quindi, spiega i propri effetti anche in questo bellissimo film, in cui i racconti cecoviani liberamente reinterpretati dallo script servono per mettere in luce- come sempre nel regista- le tante anime di una Turchia che sembra restare sempre a metà del proprio cammino. Proiettata verso molti mondi ma in realtà pronta a votarsi all’una o all’altra parte a seconda della convenienza.

NE IL REGNO D’INVERNO a funzionare alla perfezione sono regia e recitazione. Haluk Bilinger, Melisa Soezen e Demet Akbag sono i mattatori. Soprattutto il primo che Ceylan segue nelle sue camminate, negli sguardi rivolti verso un mondo più subìto che scelto, nel desiderio di essere altrove e altro e nella consapevolezza della protezione del luogo in cui si trova. Nell’isolarsi nel proprio microcosmo per non affrontare le scelte, rendersene conto, e ritornare sui propri passi senza modificare granché se non l’approccio. La regia, invece, prosegue quell’opera di incantamento dello spettatore, offrendogli la bellezza allo stato puro dei paesaggi, dei panorami, della scena, molto forte, di un cavallo selvaggio costretto a stare nell’acqua di un fiume per essere addomesticato. Ciò che non va, invece, è la sovrabbondanza della parola che sembra cercare, per la prima volta in Ceylan, di mettere in secondo piano l’immagine. Ci sono scene, tipo il confronto tra Aydin e sorella, troppo lunghe, troppo parlate, troppo da salottino radical chic, con concetti ripetitivi che alla lunga impongono a chi osserva un certo sforzo, anche mnemonico, per ricordarsi da dove si era partiti con la discussione. Forse un certo alleggerimento in sede di montaggio avrebbe fatto bene all’impianto drammatico dell’opera. Un difetto che però non inficia più di tanto: Il Regno d’Inverno resta un grande film da non perdere e da assaporare. Con pazienza e nessuna fretta.

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