La capacità di coinvolgere la pancia dello spettatore
Familia di Francesco Costabile è un film che ho assunto di pancia. Mi ha coinvolto in modo diretto, senza alcun tipo di mediazione da parte del pragmatismo nonostante i suoi piccoli difetti, nonostante un finale che non rende giustizia alla crudezza complessiva dell’opera. Significa che l’autore calabrese ha centrato il bersaglio, almeno nei confronti di un pubblico disposto a farsi coinvolgere da una storia di violenza e sopraffazione cupissima e maledetta, buia come l’antro di una caverna. Una storia in cui non esistono vincitori, ispirata con le dovute libertà autorali all’autobiografia di Luigi Celeste << Non sarà sempre così>> edita da Piemme. Il film, presentato a Orizzonti 81 nella kermesse veneziana del 2024 ha permesso a Francesco Di Leva di aggiudicarsi un sacrosanto David di Donatello come miglior attore non protagonista e a Francesco Gheghi il premio Orizzonti come miglior attore maschile a Venezia. In realtà uno dei punti forti di Familia è l’intero cast, con Barbara Ronchi e Marco Cicalese che non sono da meno dei due premiati. Il fatto che io citi Familia sul blog in ritardo è semplice:passato in sala in autunno del 2024 è ritornato sulla piattaforma di Prime Video proprio in queste settimane ed è da non perdere.
Antropologia del patriarcato
C’È un padre violento appena uscito di galera; c’è una moglie che protegge da sempre i due figli, che li ha allevati, schermati da quel genitore. E ci sono Luigi e Alessandro, cresciuti con il ricordo delle violenze. Il primo è finito in un branco di neonazisti e a sua volta in prigione; il secondo cerca una strada differente, fatta di lavoro e silenzi. Il ritorno del padre ricreerà l’inferno familiare. Come per dirci che nulla può mutare. A dispetto di una trama tutto sommato lineare e semplice, Costabile ha il merito di sfuggire qualsiasi tentazione di stereotipare i propri personaggi. Anzi, procede all’opposto: li analizza uno ad uno, li osserva con la curiosità di voler comprendere, quasi sia portato a a effettuare una valutazione antropologica per arrivare alla radice di guasti interiori quasi endemici che dal privato, per forza di cose, sgorgano nella relazione sociale. La sua Familia è un territorio di prigionieri segnati dal passato, consapevoli della propria condizione, impossibilitati, se non con gesti estremi, ad affrancarsi. Ed allarga questa visione coinvolgendo in modo indiretto ma avvertibile l’impotenza quasi strutturale dell’apparato statale, imprigionato anch’esso da sbarre di procedura e burocratiche.
La crudezza nello scheletro di un cinema raffinato
Familia è un film dall’estetica raffinata, ricercata, a volte in modo eccessivo. Esiste una dimensione onirica nei sogni e nei ricordi del personaggio di Luigi trattata dal regista attraverso immagini volutamente diluite. La loro sostanza nel soggetto, però, sembra uscita direttamente da Marnie di Hitchcock con Gheghi che affronta il proprio incubo con un procedimento simile a quello di Tippi Hedren nel film del 1964. Costabile cambia spesso i colori, crea ambienti chiusi, oasi di protezione, violati da porte che si aprono all’improvviso per riportare la minaccia, il male laddove sembrava essere calata un’apparente serenità. La visione è spesso sfuocata , il grandangolo deforma, accentua questa violenza incombente, psicologica. In questo cinema fatto di apnea da offrire a chi osserva si inserisce, con un’interpretazione magistrale, Francesco Di Leva, il padre, perfetto perché capace di incarnare ed esprimere con assoluta naturalezza e senza compiacimento la propria crudeltà e anche il travaglio, la consapevolezza di una violenza che può esplodere da un momento all’altro. È spiritato e melanconico, è ancorato a schemi primordiali e disperato. È un personaggio da tragedia come lo sono gli altri che lo accompagnano in questa bella avventura cinematografica. Molto avviene a tavola, non a caso il simbolo principe della famiglia, del convivio. Peccato solo che Costabile voglia concludere il proprio film con un finale inutile che nulla aggiunge a ciò che era accaduto poco prima, vero epilogo toccante della vicenda.
Il cinema italiano cresce
Familia è quindi un buon film in cui non c’è un attore che non riesca a incarnare il proprio personaggio. Francesco Gheghi si porta sulle spalle l’onere del protagonista e lo fa con grande intensità. Anche per lui come per Di Leva, lo script riserva improvvisi scatti d’ira e di violenza ma è la sua umanità sofferta, tribolata, generosa e difettosa, che viene esaltata. Barbara Ronchi, che non ha bisogno di presentazioni, è come al solito un’attrice di caratura superiore alla media. Da lei passano resistenza e impotenza, ribellione e assuefazione. Ha un assoluto controllo della parte perché procede per sottrazione. Intensi infine sia Marco Cicalese, Alessandro, che con il suo sguardo e soprattutto i silenzi sembra conoscere prima di chiunque la fine della storia, e Tecla Insolia, destinata a subìre le contraddizioni di Luigi-Gheghi. Del cast fa parte con pieno merito anche Enrico Borello, il capo della banda di neonazisti, un altro padre-padrone. Familia è la dimostrazione che in Italia si può ancora parlare di cinema capace di essere originale, di andare oltre descrizioni schematiche. I suoi limiti, oltre il finale, sono i compiacimenti di regia, sparsi qua e là dove non serviva. Per il resto bene così: la scena del coltello mostrato al figlio, per chi l’ha vista o la vedrà, difficilmente si potrà dimenticare. Per dirla in slang, vale da sola il prezzo del biglietto.