Vita e morte secondo Clint

gran-torino1.jpgCosa ne sappiamo della vita e della morte? Clint Eastwood da sempre ruota attorno agli opposti. Ha impostato il suo lavoro di autore cinematografico sulle dicotomie, perchè in tutti i suoi film c’è sempre il bianco e c’è sempre il nero, c’è la necessità etica, morale, di prendere posizione, di non fissarsi sulla linea di centro, ma di andare da una parte o da un’altra. E’così da sempre, fin dagli esordi. Eastwood è <<figlioccio >> di Don Siegel, uno dei maestri del cinema di azione ma non solo ( suo il montaggio per esempio di Casablanca ), ed ha sempre avuto ben presente come caratterizzare i propri personaggi: vincenti o sconfitti non restano mai in mezzo. E’il famoso senso morale che anche in << Gran Torino >> alla fine esplode. Ma qui, a differenza dei lavori precedenti, Eastwood compie un ulteriore passo in avanti: è chiara, è leggibile, è scontata la scelta di campo che l’operaio in pensione Walt Kowalsky prenderà. Non è questo il senso del film. Come non è nell’accettare la diversità razziale dei vicini di casa la base di << Gran Torino >>. Questo fa parte solo della storia, è la scusa, è il grimaldello per trattare di altro, ben più profondo: << Gran Torino >> è un discorso complesso reso semplice su vita e morte .Kowalsky è figlio del proprio tempo: ha combattuto e ucciso in Corea. E’un peso che si porta appresso, talmente privato da non potere essere confessato nemmeno di fronte a un prete. In Corea ha appreso il significato della morte. La vita gli ha riservato un lavoro e una famiglia. E anche questa è morte, perchè il film si apre con l’orazione funebre per la moglie e la messa a fuoco della superficialità dei figli e dei nipoti, presi a emblema dei tempi. Kowalsky si accorge quindi che l’unica cosa a restargli sono i ricordi, il peso e nemmeno una flebile speranza di vita perchè è ammalato e probabilmente sta contando i suoi ultimi giorni . E’chiuso in se stesso Gli uomini devono lasciare una traccia dietro di loro: il filo che si può donare al mondo è la coerenza dell’etica, dei principi. Il personaggio di Kowalsky non è il protagonista di << Mystic River >>. E’ l’uomo normale de << I ponti di Madison County >> o degli involontari creatori della storia di << Iwo Jima >>: arriva il momento in cui fare i conti con sè stessi significa prendere una strada, effettuare una scelta di campo. Quando il riscatto è quasi doveroso, automatico. Per Kowalsky l’accettazione della comunità orientale non è un discorso come alcuni hanno visto antirazzista. Ma di pura e semplice giustizia. Perché il <<diverso>> della porta accanto per questo vecchio sgarbato è comunque conosciuto: è il <<diverso>> contro cui ha combattuto in Corea, che ha dovuto ammazzare. Così, come previsto, il sacrificio del << pistolero stanco>> Clint andrà all’opposto dell’Eastwood prima maniera: salverà vite attraverso la propria morte in una sorta di espiazione, di liberazione dal peso della memoria. Vivrà nel momento in cui deciderà di morire. Lasciando in eredità la propria essenza di uomo a chi la merita. << Gran Torino >> è un film struggente, un concentrato di ciò che Eastwood in tutti questi anni ha offerto al cinema. Ed è classico perché suona moltissimi registri, perchè non lascia intentato nulla pur di tenere lo spettatore concentrato e divertito, piangente e amareggiato. La semplicità del saper raccontare una storia , una delle grandi armi di Eastwood, qui raggiunge il proprio apice. Come se << Gran Torino >> spezzone dopo spezzone ci mostrasse la summa di tutti i suoi lavori precedenti, della sua idea di cosa è il cinema, delle scelte ricorrenti tra bene e male, del suo sempre presente rapporto tra vecchio e giovane, tra soprusi e coazioni, tra carnefici e vittime. E’il singolo, è l’individuo che è nel tempo a contare. Tra la morte e la vita c’è l’attimo in cui si vive per davvero: quando la morte è l’atto più vitale e più giusto del nostro cammino. Ci sarebbe da scrivere molto sul misticismo sottile di questo film: è un’altra delle piccole differenze che caratterizzano << Gran Torino >>. L’agnostico Kowalsky compie un atto di fede quasi per dirci che per essere pronti a dio bisogna prima essere pronti a se stessi. Credo sia un aspetto che fa del film qualcosa di imperdibile e indimenticabile. Un capolavoro che come accaduto in << Changeling >> offre all’individuo un termine caro all’ autore: la speranza. La stessa che Eastwood, anni fa, aveva sottilmente negato con << Gli Spietati >> e che ora alla soglia degli ottantanni affiora, prepotente, come il cinema di questo immenso maestro.

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