Tre Manifesti a Ebbing: talmente bello da sembrare un libro

SE FOSSI il giurato di un’immaginaria Academy a Tre Manifesti a Ebbing, Missouri assegnerei il voto favorevole per l’Oscar come miglior film, miglior sceneggiatura originale, miglior attrice protagonista e miglior attore non protagonista. Metterei persino la firma in calce a queste designazioni perché succede molto raramente di trovare in un’opera tanta qualità condensata in poco meno di due ore. Merito di Martin McDonagh che dopo il felice In Bruges e il meno ispirato-pur sempre di qualità- 7 Psicopatici firma una delle opere più attraenti, coinvolgenti degli ultimi anni, dimostrando quanto sia importante possedere il talento della scrittura. Perchè il segreto del successo di critica e di pubblico di Tre Manifesti risiede soprattutto nella capacità di McDonagh, drammaturgo di caratura, di creare una storia, evolverla, svilupparla, proprio come se si trattasse di un romanzo composto da centinaia di pagine in cui calarsi e farsi assorbire.

UNA MADRE che da sette mesi attende di sapere chi ha ucciso e stuprato la figlia in una cittadina del Missouri compra lo spazio di tre impalcature pubblicitarie su una strada quasi abbandonata per appendervi il suo grido di dolore, l’ansia di giustizia e il j’accuse sull’inerzia dello sceriffo e dei suoi sottoposti. È il piccolo fatto da cui parte l’incipit di una narrazione che andrà a scoperchiare le contraddizioni dell’America più profonda, qui presa a metafora di tutte le piccole comunità. Per McDonagh sarebbe stato molto semplice sfruttare gli stereotipi e la divisione tra chi indaga e chi si nasconde, tra chi cerca la verità lottando e chi si volta dall’altra parte. Non è il caso di Tre Manifesti a Ebbing, Missouri: messo in disparte il rischio, il regista-scrittore di cinema catapulta lo spettatore in una realtà dove i confini tra il bene e il male, la pace e la violenza sono labili, fragili come i tanti personaggi che a turno fanno capolino sulla scena.La continua variazione di ritmo e il ribaltamento di ciò che sembrava essere fino a qualche istante prima portano la storia, ovvero ciò che è raccontato, ad annullare qualsiasi tempo morto di narrazione e a donare alla trama uno svolgimento imprevedibile. C’è sempre un colpo di genio a cancellare l’idea che chi osserva si è fatto dell’umanità di Ebbing. Perchè McDonagh ama i suoi personaggi: pone al centro della scena la figura della madre ma chi si confronta con lei ha una sua statura morale celata che a poco a poco viene a galla. Anche i più violenti, persino i più razzisti.

ATTRAVERSO questa operazione simpatia, rafforzata dalla bravura degli interpreti, l’autore riesce quindi a penetrare nella natura individuale di ognuno, nelle consuetudini che imprigionano, nelle coscienze che vogliono liberarsi e pulirsi, nel riscatto che nel proprio piccolo anche i peggiori riusciranno a raggiungere, non prima di essere passati da una sorta di espiazione. Ben presto si comprende che di fatto indagine mai ci sarà: il personaggio di Frances McDormand, Mildred la madre, è il grimaldello che serve al regista-scrittore per far saltare il banco dell’umanità cittadina, per metterne in mostra il dato scontato dell’indifferenza e soprattutto costringere tutti quanti a virare. Woody Harrelson, lo sceriffo, si trasforma così in una sorta di alter ego dell’autore stesso. Dietro le quinte- e non sveliamo perché-indicherà il giusto percorso da intraprendere, confermando gli indizi, sparsi qua e là, che già dalle prime scene Martin McDonagh aveva seminato nel tratteggiare i personaggi della vicenda e, sia chiaro, non i fatti, che sono quelli che servono solo per dare uno scheletro alla storia. Alla fine non ci saranno né eroi né vinti bensi la conquista del rispetto verso la vita degli altri.

È UN FILM BUONO,NON BUONISTA: per arrivarci McDonagh usa, divertendo e divertendosi, perfidia nelle battute, violenza in scena per poi disegnare improvvisi squarci di dolcezza, non rinunciando mai a riferimenti alti e bassi, dove le citazioni di Wilde e Shakespeare fanno i conti con suggestioni del cinema dei fratelli Coen-impossibile con McDormand in primo piano non respirare un’aria familiare- e con i no sense propri della militanza teatrale dell’autore. Ci sarebbe infine da scrivere pagine e pagine sull’importanza del lavoro fatto sugli attori e dagli attori in Tre Manifesti a Ebbing, Missouri. McDormand si trova per l’ennesima volta al centro di una storia dove è lei a reggere i fili. Ed è perfetta a tal punto che ben difficilmente dovrebbe sfuggirle l’Oscar. Harrelson è la solita certezza attoriale, in una parte disegnata a ok per le sue corde. Ma la rivelazione, relativa vista la statura, è Sam Rockwell, la cui candidatura all’Oscar come miglior attore non protagonista è sacrosanta. Da lui passa la dannazione, da lui la salvezza. È un caleidoscopio che va dalla psicosi alla fragilità, dall’esplosione di violenza alla frustrazione, dalla stupidità estrema alla presa di coscienza. Bravo all’ennesima potenza. Non a caso era uno dei 7 Psicopatici. Qui mostra la follia del personaggio senza mai diventare macchietta, risultando credibile nelle situazioni più inverosimili. E ci sarebbero da lodare anche tutti gli altri attori del cast-stellare nel senso della qualità- ai quali Martin McDonagh deve avere inculcato l’arte della leggerezza che sa scavare nel profondo. Come questo film che è pagine da sfogliare in continuazione, carta da assaporare quando si chiude il libro anche se è cinema. Di grande qualità.

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