Spotlight: un grande film e una splendida lezione di autentico giornalismo

PER SGOMBRARE il campo dagli equivoci diciamo subito che Spotlight ( da licenziare in tronco chi ha aggiunto nel titolo italiano Il Caso ) è un grande film e che merita in toto le proprie candidature all’Oscar della prossima settimana. Perché è un’opera solida, intelligente, capace anche di modificare, se non di mutare radicalmente, lo stereotipo del genere nel quale, superficialmente, potrebbe essere inserito. Merito di Tom McCarthy, allievo di Clint Eastwood, attore egli stesso, che già con il delizioso e sottile L’ospite Inatteso aveva dato prova di possedere una visione per nulla omologata delle problematiche che i suoi film vogliono approfondire. In quella bellissima opera del 2007 McCarthy affrontava con una sensibilità del tutto particolare il problema delle differenze di razza e di cultura e soprattutto un mondo fatto di paure reciproche, di chiusure e improvvise aperture. Qui, sempre con la stessa lucida delicatezza, ci parla dello scandalo che coinvolse l’arcidiocesi di Boston e l’intera istituzione cattolica statunitense nel 2002, quando la redazione investigativa del Boston Globe, Spotlight appunto, scoperchiò e mise in piazza con grande coraggio decenni di abusi sessuali nei confronti di minori da parte di una settantina di preti con relativa protezione delle alte cariche, non solo locali, dell’istituzione. È soprattutto grazie a quell’inchiesta di autentico giornalismo fatta-guarda caso- da autentici giornalisti che ancora oggi è in corso un ripulisti quasi globalizzato nelle segrete stanze della chiesa cattolica. Per McCarthy, quindi, si trattava di prendere tra le mani un tema scottante che altri registi meno illuminati avrebbero potuto sviluppare ed evolvere seguendo le regole del genere. Seguendo, per esempio, i cattivi e i propri opposti, gli eroi. Invece in Spotlight non c’è proprio nulla di tutto ciò. I cattivi stanno dietro le quinte, si vedono e ascoltano appena; e di eroi non vi è traccia perché i giornalisti in questo film fanno ciò che devono. Sono professionisti, persone normali che svolgono il proprio lavoro e che attraverso la professionalità privilegiano la notizia, la ricerca delle fonti, il controllo incrociato di queste grazie a un sistema editoriale che a differenza di quello italiano consente ampia libertà di movimento e sa che i giornali e le televisioni senza i giornalisti morirerebbero e non sarebbero credibili agli occhi del pubblico. McCarthy non cade nel tranello ormai comune di dipingere con tocchi da narrativa d’appendice i vari protagonisti di quell’inchiesta epocale. Strano ma vero è una delle poche volte nelle quali nessun giornalista è dedito all’alcool o alla droga, nessuno ha vite sentimentali disintegranti, nessuno vuole ergersi a pasdaran o a portatore della verità assoluta. Come se McCarthy conoscesse per filo e per segno questa professione, sapendo che la parola ” squadra ” in una redazione così importante è la conditio sine qua non per raggiungere il risultato. Lo sa talmente bene che può permettersi di non accennare nemmeno alla vittoria del premio Pulitzer 2003 per il servizione pubblico ottenuta da quella redazione.

È IL PRIMO grande merito del film ma non è il solo. Spotlight affronta il tema del marciume dell’arcidiocesi bostoniana preferendo non mostrare lo scontato. Sottraendo al pubblico visioni di preti maniaci, limitando la disperazione delle loro vittime, si affida soprattutto all’esame quasi antropologico del microcosmo che per parecchi decenni nascose i fatti. La chiesa in Spotlight sta in una posizione terza, dietro le quinte. È il potere forte che tira i fili di un intero apparato sociale; che usa la relazione con la politica e il mondo imprenditoriale e dell’alta borghesia professionistica, gli avvocati soprattutto, a proprio piacimento. Una chiesa allo sbando, ormai incapace di autoproteggersi e per questo obbligata a tessere trame, a dispensare favori, a corrompere e ricattare per far sparire i casi e mettere a tacere le proprie vittime. L’ importanza del film di McCarthy risiede anche in questo: non c’è una denuncia diretta. Il regista arriva al nucleo del problema seguendo l’inchiesta, costruendo il proprio film mattone dopo mattone, informazione dopo informazione, incontro dopo incontro. In questo modo garantisce a livello tecnico una tensione costante per tutti i 128 minuti della durata accompagnando gli spettatori all’interno della illuminata società bostoniana che a poco a poco si scopre essere sistema vero e proprio. Ne esce quindi un ritratto devastante e ben più deflagrante delle immagini dell’11 settembre newyorkese che per qualche frame scorrono sullo schermo. C’è tutto un mondo sul banco degli imputati di Spotlight. Dissento quindi da quella parte di stampa, parecchio illustre, che si è scagliata contro Spotlight, accusato di manicheismo anticattolico e di superficialità perché rifiuta di prendere in esame il travaglio individuale di chi ha commesso abusi e di studiare le ragioni e i motivi per i quali troppo spesso nella storia dell’istituzione la chiesa è stata coinvolta in questi casi. McCarthy è bravo proprio per questo. Se ne frega di fare un altro film, lui segue i fatti e non esprime giudizi di sorta. Non cambia le carte in tavola. Spotlight è un film su un’inchiesta; spetta agli spettatori trarre le conclusioni.

COSÌ la delicatezza diventa potenza non urlata né strombazzata in nome non delle teorie preconcette ma dei fatti che urlano molto più di mille j’accuse. Lezione di cinema, di sceneggiatura e di giornalismo, Spotlight cambia le regole del genere senza avere la superbia o la spocchia di affermarlo.È, ribadisco, la conferma definitiva di un grande regista che proprio sulla lucidità della propria visione e sull’umiltà con la quale affronta i problemi da trattare, firma una delle opere da non perdere nella ricca offerta di queste ultime settimane. Forse la migliore tra tutte, perché anche il gruppo degli attori, da Michael Keaton a Mark Ruffalo da Rachel McAdams a John Slattery, Stanley Tucci e Liev Schreiber, James Sheridan, Brian D’Arcy James, è un perfetto congegno, una macchina da guerra nella quale non c’è la prima donna. Infine una piccola postilla: Spotlight più che essere mostrato a cardinali e vescovi dovrebbe essere proiettato nelle redazioni dei giornali e nelle stanze di molti editori. Perché insegna giornalismo e come dovrebbe essere organizzata l’informazione, quella vera, dove la gerarchia della notizia prevale ancora e dove la credibilità, che è fatta dal mestiere e non dal sentito dire o dall’improvvisazione da social media, è ( o dovrebbe essere) il fiore all’occhiello di chi gestisce il mondo editoriale. Il giornalismo è questo e non quello dove in nome e con la scusa della crisi economica vengono distrutti patrimoni di esperienza, cultura e capacità. Vedere Spotlight per capire che le vendite autentiche e l’affezione dei lettori si costruiscono così e non con l’omologazione generalizzata delle menti e dei prodotti.

Condividi!