Polanski e il suo magnifico J’Accuse legato a doppio filo con Orizzonti di Gloria

L’indignazione è il sentimento che accompagna fin dalle prime scene il riuscitissimo L’Ufficiale e La Spia– meglio il titolo originale J’Accuse- di Roman Polanski, il film che per merito avrebbe dovuto vincere il Leone d’Oro alla recente Mostra del cinema di Venezia, a cui invece è stato attribuito solo il Gran Premio della Giuria. Premi a parte, questa è un’opera destinata a restare, a non finire nel dimenticatoio. Estrema è la sua forza, profondo il senso di sdegno che regala allo spettatore. Così, mentre stavo vivendo i 126′ della sua durata, mi è venuto naturale mettere in correlazione L’Ufficiale e La Spia con un capolavoro di un altro maestro di cinema, Orizzonti di Gloria di Stanley Kubrick che sebbene ambientato su un terreno diverso ancora oggi riesce a scatenare identici sentimenti. Là si parlava di soldati mandati al massacro, di calunnie, di ottusità e crudeltà del sistema militare e della ragion di stato. Gli eventi del film di Polanski portano allo stesso sdegno procurato da quello di Kubrick. Il fatto che anche nell’affaire Dreyfus ci siano di mezzo gli alti gradi dell’esercito francese, una palese ingiustizia e in questo un’epoca di poco antecedente la prima guerra mondiale è probabilmente solo frutto di un caso. Però il filo rosso tra l’una e l’altra opera è una sorta di traccia nrrativa sotterranea che chi ama il cinema non può non notare. L’ indignazione che si prova è simile, se non uguale. Restano le differenze e le motivazioni. Il film del 1957 di Kubrick si inserisce nel discorso legato al militarismo-si era in piena guerra fredda- quello di Polanski penetra sotto forma di allegoria temporale nel nostro contemporaneo e ci parla di calunnia, ingiustizia, di razzismo strisciante, problemi che l’esule polacco ha vissuto sulla propria pelle di artista.

Scritto a quattro mani con Robert Harris-autore del romanzo J’Accuse da cui è tratto il film- L’Ufficiale e La Spia osserva il caso Dreyfus dall’ottica del colonnello Piacquard, l’ufficiale che dopo aver comandato Dreyfus all’epoca in cui questo frequentava la scuola superiore di guerra, passò a dirigere i servizi segreti militari scoprendo la falsità delle accuse mosse alla vittima del caso di mala giustizia più importante della fine del XIX secolo. È chiara l’amara riflessione alla base del film di Polanski: esiste negli ingranaggi gerarchici l’esigenza di creare un colpevole ad ogni costo, nonostante centinaia di ragionevoli dubbi. La menzogna viene creata ad arte per compiacere gli interessi individuali di chi detiene le redini del potere, per ricevere l’approvazione della moltitudine acefala, per condizionarla e per, come nel caso specifico, fare esplodere un razzismo latente Di fronte all’errore palese e dimostrabile, il metodo dell’inganno viene amplificato a dismisura. Così, come accade nel mondo contemporaneo, si crea una copia di realtà, un universo di invenzioni verosimili ma non vere, logiche, plausibili, razionali. Contro tutto ciò combattono il colonnello Piacquard del film e l’autore Roman Polanski. Il loro J’Accuse è un’ affannosa ricerca di giustizia, di riportare nello scorrere della vicenda ognuno di fronte alle proprie responsabilità. È un film amarissimo, questo L’Ufficiale e La Spia dove il singolo che si scontra contro il centro del potere è destinato a subìre ogni forma di umiliazione. Il confronto con Orizzonti di Gloria sta anche in questo.

L’impeccabile Jean DujardinPiacquard sembra Kirk Douglas-Dax. Gli ufficiali proposti da Polanski invece sono i figli di Adolphe Menjou-Broulard, ipnotizzati dal mantenimento dello status quo, a cui devono essere sacrificate e immolate sia la realtà dei fatti sia la morale. Roman Polanski costruisce il suo J’Accuse girandolo in modo meraviglioso. L’incipit è una panoramica di una piazza d’armi, con le truppe riprese in lontananza, la scansione assordante dei passi di una pattuglia. L’idea è quella di un vuoto fisico enorme che si trasforma in vuoto morale nel momento in cui la cinepresa va sui primi piani degli ufficiali, sulle loro espressioni, sulla soddisfazione di assistere a una condanna giusta a prescindere, con la gente che oltre la cancellata dileggia l’imputato in quanto ebreo più che spia.È la prima sciabolata con cui Polanski introduce il suo film. Poi giocherà per tutti i 126′ riempendo gli spazi interni e tenendo quasi sempre deserti e spettrali quelli esterni. La sua ossessione sono i volti, colti in ogni movimento espressivo, persino quelli della moltitudine di ufficiali che affollano i vari processi. Il suo eroe è Jean Dujardin, l’uomo che va contro le proprie simpatie e i propri pregiudizi, pur di scoperchiare le falsità. Il regista ne riprende il progressivo mutamento; lo pone al centro del racconto, protagonista principe di ogni momento, lasciando con ammirabile senso di raffinatezza sullo sfondo la più defilata figura di Louis Garrel-Dreyfus, la cui caratterizzazione della vittima innocente è un misto di incredulità, di rabbia controllata, di esserci in continuazione pur senza apparire.

La perfezione viene raggiunta in alcune scene da mostrare alle scuole di cinema: l’apice, alla Hitchock in tutto e per tutto, è guadagnato quando Dujardin-Piacquard si reca in chiesa per recuperare una lettera. Polanski ne riprende per un attimo solo lo sguardo. Poi l’obiettivo si avventura in profondità dentro la chiesa, le sue volte, le sedie e i banconi vuoti. Si avvertono passi: è un uomo che entra ed esce. Sappiamo che non è il personaggio cercato dal protagonista. Così la cinepresa va ad indagare ancora una volta penetrando nella maestosa spettralità del luogo . Da un angolo spunta un prete che va verso una probabile sacrestia. L’attesa per chi consegnerà la missiva cresce ancora. E sembra proprio che nessuno arriverà. Restiamo solo noi spettatori e la chiesa stessa. Dujardin è fuori campo, forse non c’è più, forse si è stancato di aspettare. È l’imganno del regista, perché alla fine udiamo l’eco di tacchi femminili. Una donna si dirige verso un banco, si inginocchia. Si alza e si avvia verso l’uscita: in quel preciso momento lancia un’occhiata. Dujardin non è mai andato via. Ciò che vedevamo era lo stesso che lui osservava. La nostra apnea la sua. Ora andrà a recuperare la busta che attendeva. La scena è magistrale, i movimenti di macchina sono geometrici, studiati come se fossero un balletto con i segni per i danzatori per terra.

Questo è Roman Polanski. Un’altra scena che dura parecchi minuti è un capolavoro di minuzia. A Dujardin-Piacquard vengono mostrati gli uffici dove dovrà operare. Ogni stanza, ogni pertugio, ogni mobilio è descritto al protagonista che incontra in questa visita coloro i quali dovrebbero diventare i suoi sottoposti e i suoi colleghi. Il senso di ripulsa dell’ufficiale diventano anche i nostri. Con pochi tocchi Polanski ci mostra la polvere reale e metaforica, ciò che poi troveremo sotto di essa, le complicità forzate, le falsità. La nausea appunto che domina un grande film, uno dei suoi migliori, dove un cast importante è perfetto nell’adeguarsi al gioco di bugie, di sotterfugi che caratterizzarono l’affaire Dreyfus e che ci mostrano che da allora molto poco è cambiato. La riflessione conclusiva di Polanski è amara: nemmeno le vittime sono l’una uguale all’altra; esiste un tipo di innocenza che sa di eroismo e un’altra che verrà sempre osservata con sottili e malevoli distinguo, frutto del pregiudizio. Perché così vuole quel monumento inscalfibile che si chiama ragion di stato. Il film è stato girato a 86 anni da un ragazzino che ha ancora tanto da dire. Un po’come accaduto con Martin Scorsese e il suo The Irish Man: l’anagrafe non conosce la mediocrità.

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