Kechiche: grandiosa idea di cinema

Per riuscire a vedere << Couscous >> ho impiegato due giorni: nel primo la sala era piena in ogni ordine di posti, nel secondo mi sono adattato ad arrivare un’ora prima per riuscire a prendere il biglietto. Mai vista, almeno per un certo tipo di cinema, una ressa del genere e ne sono rimasto stupìto. Ma è un dato irrilevante a confronto di questo film che avrebbe dovuto stravincere il Leone a Venezia – poi andato all’algido << Lussuria >> -, una delle migliori pellicole a parer mio degli ultimi vent’anni. << La graine et le moulet >>, titolo originale, di Abdellatif Kechiche riesce fin dalla prima scena ad infrangere una barriera che il cinema si trascina dalla sua invenzione: quella della << fiction >>, della messa in scena, della finzione. Come dire che il luogo fisico dello spettatore non è più la sala cinematografica ma il film stesso. Il coro di personaggi che lo affollano ipnotizzano, ti portano con loro, ti invitano nel quotidiano, nei loro sogni, nei loro problemi, nelle loro discussioni. Kechiche fa parlare in continuazione, usando un registro a più voci mai banale, sempre attento al particolare, alla caratterizzazione dell’uno e dell’altro. Ci riesce con una sceneggiatura ferrea, rigidissima nella quale si muovono attori non professionisti che sembrano coinvolti a tal punto da non recitare se non loro stessi. Parlare della trama di << Couscous >> è irrilevante: è un film studiato nei minimi particolari proprio per annullare la differenza tra chi guarda e chi recita. Mentre ammirato stavo con i suoi personaggi ripensavo a un vecchio problema delle forme espressive. La domanda che ogni artista si pone è come mediare il proprio punto di vista con quello di chi sta dall’altra parte, sia lettore o spettatore. Ci sono varie teorie nel cinema: Kechife lo fa sviluppando la lezione del cinema francese che poi diede spunto per il neorealismo italiano, aggiungendoci però toni da Robert Altman europeo, portando quel modo di girare alle estreme conseguenze. Non è un caso che alcuni spettatori provino addirittura fastidio per tutte quelle voci che sembrano, ma solo in apparenza, sovrapporsi l’una all’altra. In modo molto volgare e ben poco intellettuale si potrebbe dire che il caos di Kechiche è del tutto organizzato, vivisezionato, preparato. E da quella precisione nasce la spontaneità della recita che annulla sé stessa e diventa realtà. David Lynch, all’opposto, usa l’allegoria per arrivare alla stessa conclusione. Due modi differenti di vedere il cinema. In Kechiche l’allegoria è l’esistenza beffarda, il piccolo caso che crea disgrazia, imprevisti o solidarietà. Sarà difficile non parlare per molti anni del suo film e sarà dura per questo grande regista francotunisino crearne uno migliore. Con << Couscous >>, infatti, siamo dalle parti dell’assoluto. Se saprà superarsi ci inginocchieremo. Forse…lo stiamo già facendo.

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