Invictus sì ma sotto tono

invictus-locandina.jpgChi mi conosce sa dell’amore che nutro per i film di Clint Eastwood. Anche quelli che vengono considerati minori o non felici, valga per tutti l’esempio di << Mezzanotte nel giardino del bene e del male >>, mi hanno trovato entusiasta. Così non posso certo scagliarmi contro << Invictus >>, l’ultima sua opera firmata subito dopo quell’autentico capolavoro che è << Gran Torino >>.E’un ottimo film, da vedere, gustare, una storia che trasporta lo spettatore nel terreno nel quale l’attore <<icona>> di Don Siegel e Sergio Leone è maestro. Chi al cinema chiede emozione, commozione, qualche lacrima, è accontentato dall’ <<Invincibile >> eastwoodiano. Così come saranno felici gli appassionati di rugby che nel film vedono un formidabile mezzo di promozione del loro sport, una disciplina << selvaggia giocata da gentiluomini >>e che mai è stata ripresa al cinema così bene. Solo che al di là di questo in << Invictus >>, di Clint Eastwood c’è poco. Non esiste per esempio la tematica tra bene e male, tra giusto e ingiusto, non c’è la lucidità anche pessimistica di andare oltre lo stereotipo dello sport. Non è un caso infatti che questo sia un film fortemente voluto da Morgan Freeman e girato da Eastwood sulla base di un romanzo, << Playing the enemy >> di John Carlin poi sceneggiato da Anthony Peckham. Come dire che dell’autore di alcune delle opere più memorabili degli ultimi quindici anni c’è la mano registica, non quella autorale.<<Invictus >> non è la nazionale sudafricana di rugby. E’ Nelson Mandela, del quale il fim rappresenta l’elegia senza se e senza ma. Gli Springboks sono il mezzo attraverso il quale la politica cerca di creare una coscienza nazionale all’indomani dell’elezione di Mandela alla guida del Sudafrica. Così il discorso cinematografico di << Invictus >> si limita a mostrarci Morgan Freeman, un  Mandela, preoccupato più delle sorti della nazionale di rugby nella fase preparatoria della Coppa del Mondo del 1995 che dei problemi che attanagliano la nazione nei primi anni della sua presidenza. Mandela elegge l’evento, ovvero la disputa del campionato del mondo di rugby in Sudafrica, come la prima autentica mossa politica per dare una coscienza al paese, per creare l’idea di nazione. Sport, quindi, visto come mezzo di propaganda, uno spot ideale per la ricerca di una convivenza ritenuta impossibile tra l’elite afrikaneer, bianca, e le diverse etnie di colore che permisero a Mandela di salire sul ponte di comando di questo strano e affascinante paese. Nella realtà l’intuizione di Mandela non era nuova: Hitler, nel 1931, promosse le prime grandi opere infrastrutturali e industriali della Germania sponsorizzando con cifre importanti Mercedes e Auto Union nelle corse automobilistiche, l’ideale per offrire all’Europa l’idea di una nazione votata alla tecnologia e al progresso. L’Italia stessa, sempre restando nel campo dei motori, sfruttò la Mille Miglia sia sotto il fascismo sia dopo la liberazione come competizione che offriva al popolo un motivo in più per sentirsi unito. La stessa cosa accade in << Invictus >> e la nazionale di rugby, fino ad allora <<sentita >> a livello di partecipazione solo dalla minoranza bianca degli afrikaaner e osteggiata dalla maggioranza nera, si trasforma per Mandela come l’unico cavallo di Troia possibile per costruire il senso della nazionalità.<<Invictus >> ha in ciò il significato e non si muove mai nella sceneggiatura dal proprio punto di partenza. Non può quindi essere visto come riflessione sul fenomeno Mandela e sul Sudafrica, sull’opera dello statista e sul tentativo di creare la democrazia in un continente dove sembra una chimera. Su questo fronte il messaggio che proviene dal film è addirittura fuorviante, perché il Sudafrica non è rose e fiori; tutt’altro è una nazione devastata, come a Johannesburg, da una violenza senza pari e da una criminalità spesso senza controllo. Una nazione in cui il cammino per la completa riconciliazione è ancora lungi dall’essersi concluso pur con gli enormi  sforzi del proprio presidente. Nel film questo non c’è, non ho riconosciuto in << Invictus >> la nazione che avevo frequentato prima di Mandela e dopo Mandela.C’è per contro un magnifico sport, il rugby, e il racconto di un’impresa che pareva impossibile. Portare una squadra come gli Springboks alla vittoria nella Coppa del Mondo nonostante i suoi giocatori apparissero dei Davide a confronto dei Golia che all’epoca andavano per la maggiore, i neozelandesi e gli inglesi. I sudafricani arrivarono in finale e riuscirono a battere gli All Blacks per 15 a 12 nei tempi supplementari. Eastwood ci racconta tutto questo con il pathos che non manca mai nei buoni film di sport, focalizzandosi sulle personalità di Mandela e del suo alter ego nella squadra, il capitano Francois Pienaar, interpretato da un sempre più convincente Matt Damon. L’uno di colore, con un passato di trent’anni in cella; l’altro bianco, esponente della società che fino ad allora aveva retto le sorti del paese. Entrambi vogliono una sola cosa: vincere. Mandela perché ha l’intelligenza per sapere che quella competizione sarà la cartolina più importante da mostrare al mondo; Pienaar perché ha compreso che il vento è cambiato e che una squadra non si adopera per il bene del singolo ma del gruppo. Proprio come una nazione democratica. Ed è  nelle immagini della finale che Eastwood offre il meglio di sé: entra in campo con la cinepresa, ci mostra le azioni di quella partita, ci fa sentire giocatori e spettatori, ci fa palpitare, piangere anche. Ma non basta per fare di << Invictus >> una pietra miliare della sua cinematografia. Definiamolo un ottimo film sullo sport ma non andiamo oltre. E’tutto troppo stereotipato nei personaggi di contorno, gli accenni ai rapporti tra uomo e uomo, dei quali Eastwood è maestro, sono labili, telefonati, scontati. Con questo << Invictus >> resta un film da vedere. Perché il sottotono di un grande autore vale sempre il prezzo del biglietto, non fosse altro per la tecnica che offre a chi ama il cinema.

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