Il Figlio di Saul:la devastante dissipatio humani generis di Lázló Nemes

L’ORRORE è nell’osservare lo sguardo, sempre presente, del protagonista. Gli occhi che vagolano per trovare un appiglio, una parvenza di normalità nel bel mezzo della follia collettiva. L’orrore è nell’ascoltare i rumori, i pianti, le grida di dolore, lo sbattere i pugni contro le pareti quando ci si accorge che è giunto il momento della fine collettiva. L’orrore è nell’essere catapultati laddove il genere umano non conosce più rispetto, regola, valore, dove la sopravvivenza non è un mezzo per proseguire ma solo per attendere la morte certa. Dove la ribellione è un’utopia e proprio per questo va ricercata. Pochi film sanno mediare questa autentica dissipatio humani generis come IL FIGLIO DI SAUL che, come ho già scritto, non è importante perché candidato all’Oscar per la migliore opera straniera o perché ha vinto il Gran Premio Speciale al festival di Cannes.È semplicemente un film fondamentale che sembra porre una solidissima base alla spiegazione della shoah, senza alcun tipo di compiacimento, di ruffianeria nei confronti degli spettatori. Se dalla visione di questo gioiello del regista ungherese Lázló Nemes si esce psicologicamente devastati è solo perché si tratta di una bellissima opera che coglie nel segno, che non può nemmeno risultare indifferente a quella numerosa schiera di malpensanti e -mi si passi il termine- imbecilli che ancora oggi minimizzano la portata della shoah cercando sempre di porre i se, i ma o i però dalle loro malate sovrastrutture mentali.

COSA HA dunque di tanto particolare IL FIGLIO DI SAUL rispetto ad altri film sul tema dei campi di concentramento e del genocidio ebraico? Credo la delicatezza con la quale Nemes mostra senza mostrare, prendendosi il rischio-calcolato perché alle spalle ha una solida sceneggiatura- di girare l’intera opera in 4:3, racchiudendo dunque lo spazio di visuale, senza allargare l’inquadratura se non in rari casi. La camera segue quindi il volto di Saul, interpretato da Géza Röhrig, un ebreo appartenente ai Sonderkommando, i gruppi di internati, in genere gli ebrei in buona salute e più prestanti fisicamente, che nei campi di concentramento venivano obbligati a sbrigare i lavori più alienanti: accompagnare i prigionieri verso le camere a gas, rimuovere e bruciare i loro cadaveri, dividere l’abbigliamento, raccogliere i preziosi, in cambio di qualche brandello di tempo in più da << vivere >> e di un poco di cibo. Un ruolo, il loro, esecrabile per costrizione, capace di mettere a soqquadro valori personali, etica, creare sensi di colpa e ugualmente insegnare l’arte della sopravvivenza e dell’estremo compromesso. Saul è uno di questi. Chiude gli occhi quando sente le terribili vibrazioni e le urla che provengono dalle camere a gas. È come se sulle sue spalle gravasse la colpa di riuscire ancora a vivere ed è per questo che alla vista del cadavere di un ragazzino finge o riconosce realmente- questo non lo sapremo mai- il proprio figlio; forse quello che non ha mai avuto. Riuscire a dare una giusta sepoltura a quel corpo diventerà quindi la sua missione, l’atto finale di un’esistenza penetrata nel buco nero dell’orrore. Per farlo metterà a repentaglio sia la propria sia la vita dei suoi compagni. Ed è qui che sta la grandezza del film di Nemes.SAUL non è un eroe, non è l’uomo perfetto. Non è troppo buono, non è cattivo. Si piega come tutti ai compromessi. Non ha neanche le speranze di molti compagni che stanno cercando un modo per ribellarsi allo status quo di prigionieri e di condannati a morte ad Auschwitz nel 1944. Conosce il proprio destino. Se lui lotta è solo per riportare nell’orrore almeno un atto giusto, la sepoltura di un innocente.

LA SCELTA INTELLIGENTE che sta alla base del Il Figlio di Saul risiede nella rinuncia da parte del proprio autore di identificare nel protagonista un personaggio migliore o peggiore degli altri. Abiurando all’eroismo permette allo spettatore di diventare parte terza all’interno dell’inquadratura. Così nella gabbia che Nemes ha costruito come spazio ottico diventiamo anche noi prigionieri, entriamo nel girone infernale, viviamo, pur senza vedere null’altro che le risultanze psicologiche della devastazione, l’esperienza di Auschwitz come mai il cinema prima di ora era riuscito. È un mondo composto da numeri da eliminare. Dove la parola uomo è annullata nel momento in cui si entra. Il singolo è un pezzo, un prodotto da estirpare. Non c’è pietà, nulla all’interno del campo di sterminio riporta all’uomo ideale con la sua etica, i suoi principi, le sue leggi morali. Per questo la scelta di Saul di eleggere il ragazzino come figlio è di fatto l’unico atto vitale, l’unica scelta << umana >> nella nauseabonda follia dove non esiste dio, dove non c’è sole, non c’è cielo, non c’è aria. Il desiderio di Saul è riportare l’uomo al centro. E il finale, dubbioso, ci farà crepitare tra i fili logici del cervello i proiettili di una domanda: se è davvero possibile per l’uomo salvarsi o essere solo strumento per causare la morte di altri uomini. Così la dissipatio humani generis di Nemes ci congeda lasciandoci con il vuoto creato dallo sconforto. L’uomo evapora e con esso anche qualsiasi speranza di cambiamento. Film durissimo e delicato, ossimoro scopico di quelli che non possono essere dimenticati, Il Figlio di Saul ci sferra un pugno e ci stende al tappeto. Ciò che fanno solo le opere che sanno andare oltre. Quelle che amiamo e che ci portiamo dentro.

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