Fruitvale Station: l’esordio non banale di Ryan Coogler

PROSSIMA

<< FRUITVALE STATION >>, del tutto inutile l’aggiunta nel titolo italiano << prossima fermata...>>, è un film che si presta a diverse considerazioni, possibilmente lontane dalla diatriba che sta dividendo i fautori del cinema di impegno civile a tutti i costi e quelli che invece sostengono la supremazia della finzione anche in presenza di spunti reali con attinenza a una situazione sociopolitica ben precisa. È la classica polemica sterile che fa tanto cineforum da liceali e che perde di vista l’unico dato concreto: se un film sia buono oppure no. La risposta è sì, il film è più che buono e merita di essere visto e gustato. Vincitore del premio opera prima alla rassegna Un certain regard al festival di Cannes del 2013, pluripremiato al Sundance dello stesso anno, << Fruitvale Station >> parte da un fatto reale, l’assassinio del tutto gratuito da parte di un poliziotto del ventiduenne di colore Oscar Grant all’alba del 1 gennaio 2009 a una fermata della metropolitana, Fruitvale appunto, della linea che collega San Francisco con la Bay Area. Uno spunto ideale per il regista di colore Ryan Coogler per portare sullo schermo l’ennesimo caso di pregiudizio razziale e di violenza. Solo che a differenza di chi fa documentari, l’esordiente Coogler sceglie una strada tutta sua per farci riflettere. Non ha la presunzione di fare cinema verità. Non ha nemmeno la prosopopea di volere lanciare a tutti i costi un messaggio. Preferisce una terza via: incastona la sceneggiatura dentro due confini. Quello iniziale, le immagini reali riprese da un telefonino del pestaggio di Grant da parte di una pattuglia, e quello finale, l’originale filmato della giovane figlia dell’omicida durante una commemorazione nell’inverno del 2013. Incipit e conclusione sono la realtà. Tutto il resto è cinema. È invenzione, finzione, scrittura e ripresa.

COME in una fiction televisiva ci viene mostrato l’ultimo giorno di vita del protagonista. Lo seguiamo nei suoi tentativi di riannodare i fili con un’esistenza che lo ha portato in prigione per spaccio, lo ha allontanato dalla compagna e dalla piccola figlia, gli ha fatto perdere il lavoro di commesso in un supermercato. Coogler gioca con il proprio protagonista: lo porta dalle parti dello spettatore che si mette subito a tifare per lui. È un eroe buono che cerca il riscatto e sembra avere tutte le credenziali per riuscirci. Non è nemmeno troppo stucchevole nel suo buonismo perché uno dei meriti del regista è proprio il pudore nel disegnare i personaggi che si muovono nello sfondo. C’è anzi l’ansia, sempre ben controllata, di trasmettere normalità. Grant non è un nero emarginato; la sua famiglia non vive nei ghetti. È gente della piccola borghesia che sbarca il lunario, vive in case pulite e ordinate, ha una forte concezione dei legami familiari e non ha nemmeno troppe rivendicazioni da fare. È il modello tutto americano di middle class che segue i talk show di Ophra Winfrey e da questa mettiamo trova spunto per provare una dieta dimagrante dove i carboidrati sono banditi. Lo spaccato sociale disegnato da Ryan Coogler non è quello che si potrebbe immaginare. Ma è chiaro che tutta la situazione descritta << invoca >> ciò che già si sa, il fatto delittuoso che porterà alla morte di Oscar Grant. Il regista sparge qualche indizio premonitore in modo un po’ruffiano ma non è fastidioso, non è buonismo allo stato puro. Perché lo svolgimento della trama arriverà a dover fare i conti con la cronaca nuda e pura dell’allucinante notte del 31 dicembre 2008. Quando Grant, la sua donna e gli amici prendono la metropolitana per andare a festeggiare il nuovo anno e lui non tornerà più a casa. Il regista quindi cambia: usa colori differenti, ci mostra il caos della gente all’interno dei vagoni e poi l’improvvisa esplosione di violenza da una parte e dall’altra. Una rissa, una retata, uno sparo accidentale o forse no da parte di un poliziotto.

RYAN COOGLER sembra voler fare un discorso universale sulla violenza che si annida, celata, all’interno della società americana. Basta un nulla per scatenarla, per portare alla luce le frustrazioni degli uni e degli altri, il senso di non fiducia e soprattutto la paura che prende chiunque. Non si permette giudizio morale: è chiaro che parteggiando per il proprio protagonista disegna i poliziotti in modo stereotipato ma in questo ha anche il supporto delle immagini originali riprese dai telefonini dei testimoni di quel fatto di sangue. È un’opera prima, quindi la perfezione non appartiene a << Fruitvale Station >> eppure il film è molto gradevole, fila che è un piacere, è ben recitato da quella simpatica canaglia di Michael B Jordan e dai suoi colleghi, tra i quali Octavia Spencer. Il merito maggiore è la capacità di Coogler di mettere in scena i dialoghi, di far interagire gli attori. In certe riprese, per esempio la preparazione in cucina della cena di capodanno, ha un modo << corale >> di immagine e di dialoghi che può ricordare lo stile di Jonathan Demme, guarda caso un altro che non disdegna né il cinema né il documentario. Un modo già adulto e maturo, molto controllato, di fare cinema, lontano dalla sciatteria o dall’improvvisa mania di voler ribadire a tutti i costi ciò che già si vede sullo schermo di certi registi indipendenti. << Fruitvale Station >> ci consegna una nuova voce tra gli aspiranti autori statunitensi. Potrebbe diventare importante. L’esordio non delude. Se ricorda Demme c’è materiale sul quale si può lavorare.

Condividi!