È arrivata mia figlia! Un titolo sbagliato per una delicata, deliziosa e intelligente ricerca delle proprie radici

ECCOCI in presenza di un film brasiliano grazioso, delicato, leggero solo in apparenza e per nulla superficiale. << È arrivata mia figlia >> di Anna Muylaert proviene dal Sundance e ha ricevuto la consacrazione europea al festival di Berlino. Dal Brasile si porta appresso la delicatezza della narrazione e quella capacità, specifica, di dilatare piccoli fatti creando racconti. È l’incanto di quel popolo, per il quale anche la situazione più normale merita sempre di essere rivista con l’occhio di chi vuole andare oltre. Perché << È arrivata mia figlia >> è una pianta che si poggia su un tronco che potrebbe apparire come stelo. Una governante, più che domestica, proveniente dal nord este brasiliano è ormai entrata in pianta stabile nella famiglia per la quale presta servizio. Una di quelle benestanti della società paulista, che vive in uno dei quartieri chic di Morumbì, con una madre quasi sempre assente perché impegnata nella propria brillante professione nel campo dello stile, un padre che dorme fino a giorno inoltrato e ha abbandonato ogni velleità artistica nella pittura e un figlio, Fabinho, che nella governante Val ha il reale, unico, confronto affettivo perché la donna è stata l’unica a prendersi cura di lui fin da quando era bimbo. Ne copre le malefatte, ne ascolta i tormenti sentimentali, lo protegge, lo accoglie nel suo letto come quando era piccolo. Val è apprezzata dalla famiglia: sa stare al proprio posto. Vive in una cameretta della villa, prepara da mangiare, si occupa di gestire la casa e soprattutto ha il rispetto per chi l’ha accolta e le ha permesso di vivere e di mantenere una figlia misteriosa che vive col padre nel lontano nordeste. La situazione, però, si ribalta quando la figlia decide di scendere a Sao Paulo per prepararsi all’esame di ammissione all’università. La ragazza sconvolgerà comportamenti e abitudini familiari creando un vero e proprio confronto tra la propria visione esistenziale, improntata all’indipendenza e al non avere timore delle differenze di classe, e quella di una madre che non riconosce appieno perché non riesce a comprenderne il sacrificio di averla abbandonata per andare a lavorare altrove. Registi faciloni sarebbero caduti nella tentazione di sfruttare questo canovaccio per far pendere il film o come manifesto sulla lotta di classe o come romanzetto mettiamo pruriginoso sui dolori sentimentali di padri e figli. Per fortuna Muylaert tiene il timone dritto: non scende né sul primo né sul secondo terreno. Preferisce concentrarsi su altro.

IL FILM è vincente sull’approfondimento di ogni personaggio. Sul progressivo smantellamento delle sicurezze e delle abitudini. Un manovrare di sceneggiatura e filmico a ritmo paulista. Un tocco, un altro per proiettare lo spettatore all’interno di quella casa come se conoscesse alla perfezione ogni componente della famiglia e ne comprendesse le motivazioni. L’arrivo della figlia è una tempesta estiva che spazza il tran tran e scoperchia le carenze di tutti quanti. Anche e soprattutto di quelle della protagonista principale, la governante Val, interpretata da una grandissima Regina Casé, la quale è la prima ad accorgersi che non tutti i conti della propria vita tornano. Il lavoro, in ogni caso, l’ha distolta dall’accudire la crescita della figlia Jessica, Camila Màrdila, che allo stesso tempo nella madre vede le tracce di un servilismo culturale antico e a questo reagisce con la rivalsa di rompere con gli schemi. C’è una presa di coscienza delle carenze di ognuno e alla fine a restare saldissimo, a costruirsi più che a ricomporsi, sarà il rapporto tra madre e figlia. Ognuna delle due si aprirà all’altra in un finale ottimistico, senza alcuna certezza del domani ma con lo sguardo proiettato verso la fiducia nel futuro perché basato, appunto, su un’armonia finalmente ritrovata e sulla riscoperta delle radici. Gli altri probabilmente resteranno invischiati nel loro non detto, nella maschera che sono costretti a portare quasi per non rompere il fragile equilibrio fondato sull’insoddisfazione e conseguente disillusione del padre, sulla solitudine profonda e anaffettiva della madre e su una probabile libertà senza radici che il figlio riuscirà a conquistare. Chiusi i cancelli della villa c’è quindi chi resterà prigioniero del proprio mondo ovattato e chi invece si consegnerà al mondo reale.

PRESENTATO in Italia con un titolo sbagliato, l’originale << A che ora torna? >> sarebbe bastato per non creare scetticismo alla visione della locandina o, in seconda battuta, anche quello utilizzato in Gran Bretagna, << La seconda madre >>, il film è una piccola chicca che si gusta dall’inizio alla fine grazie alla recitazione di Regina Casé e di tutti gli altri. Anche il tratteggio che Muylaert fa di ogni personaggio dimostra quanto la sceneggiatura sia stata importante per la riuscita dell’opera. Carlos, Laurenco Mutarelli, è il padre stralunato per il quale la vita si è fermata all’epoca in cui dipingeva: non fa nulla, è ricco, subisce, indossa una serie di t shirt che faranno la gioia negli amanti del rock, inseguendo utopici spazi di libertà nella prigione dorata nella quale si è autoconfinato. La ricerca esasperata del benessere e del successo invece imprigiona la figura di Barbara, la madre interpretata dalla gelida Karine Teles, in una anaffettività radicale e senza possibilità di essere estirpata nemmeno di fronte ai tormenti del figlio che vede nei genitori una presenza-assenza alla quale non può appoggiarsi nei momenti di necessità. Jessica, Camila Màrdila, viene collocata dalla regista come l’elemento di rottura della trama. A volte strafottente, antipatica, altre bisognosa di transenne cela dentro di sé un segreto che sarà svelato nel finale. E che permetterà di aderire ancora di più alla vita di sua madre Val. È arrivata mia figlia! non stanca mai. Spiritoso, ironico, intelligente. Per la regola secondo la quale anche da una piccola idea, una buona sceneggiatura e ottimi attori si possono trarre ottimi film. Come questo che non va perduto.

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