Dolor Y Gloria: Almodóvar si mette a nudo un’altra volta ancora. E a noi piace così

Quando lo spettatore medio incrocia un film di Pedro Almodóvar la sensazione è sempre la stessa: un’iniezione di vicinanza, di complicità assoluta tra chi osserva e l’autore. Con Almodóvar le barriere vanno presto in frantumi: lui si mette a nudo con apparente naturalezza- in realtà una fatica tremenda – e ti spogli assieme a lui. Sei impotente, in sua balìa. È quello che vuole l’artista spagnolo, è quello che si aspetta lo spettatore medio. L’uno cerca l’altro, come quando si legge un romanzo dello scrittore preferito. Sai sempre che ti offrirà ciò che ti ha sempre donato. Contenuti identici sotto forma differente. Almodóvar non è assimilabile a nessun altro collega. Possiede la dote rara dell’egocentrismo controllato, dell’autocompiacimento non stucchevole che deriva dalla progressiva spoliazione di se stesso. Essendo una personalità complessa per creare deve penetrare i propri incubi, guardarsi frontalmente, lavorare mettendo assieme i tanti incastri del proprio puzzle di sofferenza. Almodóvar non è un regista; è uno scrittore per immagini e parole. Le une non vanno disgiunte mai dalle altre. È un artista: crea veridicità per giustificare un processo narrativo in grado di supportare questo suo mettersi a nudo. Per cui la finzione, come nel caso di Dolor Y Gloria , non è mai il fine ultimo del proprio lavoro ma solo il mezzo che meglio conosce -eccome se lo conosce- per sentirsi vivo, per appropriarsi della gioia del fare, della gioia dell’essere parlandoci dei suoi incubi, delle sue impasse, delle sue debolezze.

In Dolor Y Gloria trovo che esista un collegamento molto stretto con una delle opere del << sommo >> che all’epoca, si era nel 2009, mi aveva coinvolto in modo totale: Los Abrazos Rotos -la recensione su questa specie di blog http://guido.sgwebitaly.it/articoli/cercando-il-film-nella-propria-vita/- sia per via della tematica metacinematografica sia per le figure che qui e là vengono proposte: in entrambe al centro della scena c’è un regista. Negli Abbracci Spezzati era cieco e dettava le sceneggiature all’unico innocente che ancora possedeva la purezza dell’occhio , ovvero la capacità di vedere nel cinema la risposta all’esistere e viceversa. In Dolor Y Gloria il regista è malandato, pieno di acciacchi, di malattie vere o presunte. E soprattutto si è autoesiliato in un limbo di non creatività, di disillusione, su cui grava la cappa di un tempo che è passato, sfuggito, che non potrà mai più tornare. L’ingresso nell’anzianità che porta a fare i conti con se stessi. Su questo processo mentale, realmente vissuto da Pedro Almodóvar, viene creata un’opera in cui, ancora una volta, la salvezza viene dall’andare a ritroso nel proprio passato, nell’epoca delle scoperte, in quell’infanzia vissuta o forse sognata, nel ritrovare un senso, nel capire nella sua complessità El Deseo, il desiderio che non è gioia ma privazione, assenza e tendenza. Almodóvar ci arriva con il consueto incastro di situazioni e piani temporali, sfruttando la fascinazione del sogno, visto non come fuga dalla realtà bensì confronto con questa e sua ultima speranza. Per questo si fa cinema, per questo si continua a vivere.

Alcuni hanno definito Dolor Y Gloria quasi una sorta di testamento dell’autore spagnolo. Ma non è così: questo è un film vitale dove l’incubo della morte, psicologica prima e fisica poi, è continuamente scacciato. Con l’ironia, con lo sberleffo, con i momenti classici del cinema di Almodóvar, in cui le figure femminili acquistano a poco a poco che si procede nella narrazione sempre maggior spessore e dove le anime del regista-quella autodistruttiva e quella che esplode vita- duellano senza soluzione di continuità in un braccio di ferro per alla fine riconoscersi e accettarsi. In attesa, probabilmente, della prossima crisi, della prossima depressione, esperienza quasi catartica per poter ripartire e affidare un’altra volta ancora tutto se stesso al cinema e al suo linguaggio. Dolor Y Gloria ha in Antonio Banderas, premiato a Cannes per questa interpretazione, il perfetto alter ego di Pedro Almodóvar. L’attore è sensazionale nel riuscire a esprimere questo continuo perdersi e ritrovarsi e la capacità di trasferire l’Almodóvar uomo sullo schermo con una adesione radicale. Ottimi anche Asier Atxeandía, il nemico-amico attore, vero punto di confronto delle diverse sfaccettature del protagonista, Leonardo Sbaraglia, Penelope Cruz e Julieta Serano, che interpretano la madre da giovane e da anziana. Il resto, per chi ancora non ha visto il film, è il classico tripudio di bellezza formale, dell’uso sapiente dei colori, dei contrasti, della ricostruzione minuziosa dello stesso appartamento del regista, della azzeccata scelta musicale che fa da sfondo alle situazioni – il pezzo forte è Come Sinfonia di Pino Donaggio cantata da Mina dove sogno è la parola più usata- per legare ciò che è stato a ciò che sarà:cinema.Vita.

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