Autopsia di una nazione

post_mortem_trailer.jpg<POST MORTEM>> avrebbe dovuto vincere il Leone d’Oro alla Mostra di Venezia che invece è stato assegnato, tra molte e più che giustificate polemiche, al mediocre prodotto dell’ex fidanzata di Quentin Tarantino, presidente della giuria, Sophia Coppola. Per il suo autore, Pablo Larrain, si sarebbe trattato del secondo riconoscimento italiano dopo l’affermazione dello splendido <<Tony Manero>> al festival di Torino di due anni fa. L’essere rimasto a mani vuote non ha inficiato la qualità di questo film cileno dal forte spessore, nel quale i temi già presenti in <<Tony Manero>>-la recensione è su www.guidoschittone.com/?p=245- vengono resi più espliciti e più smaccatamente politici. Ma esiste comunque un filo conduttore tra quell’opera e questa non solo perché il protagonista principale, il mattatore, è ancora una volta Alfredo Castro, un interprete di una sagacia tale da poter essere considerato uno dei migliori attori degli ultimi anni. C’è la visione <<privata>> dei fatti storici che portarono il Cile alla dittatura di Pinochet; c’è una Santiago vuota, deserta, priva di vita; c’è un protagonista chiuso in sé stesso che parla di rado, che osserva, riflette, c’è il senso di una nazione imprigionata oltre il proprio pubblico, senza una visione del futuro, c’è la pesantezza di quel periodo, il senso claustrofobico di un’esistenza priva di ogni speranza, c’è l’assenza totale di colonna sonora, c’è ancora il rimando al mondo dello spettacolo <<basso>>: in <<Tony Manero>> quello degli show televisivi per eleggere i sosia dei personaggi famosi, in <<Post Mortem>> un accenno all’obsoleto teatro di rivista e varietà. E c’è soprattutto questo senso di morte <<morale>> che pervade la pellicola dalla prima all’ultima scena.Mario osserva la finestra di fronte: è il suo gesto quotidiano, il suo rito. Controlla i movimenti di Nancy, una ballerina di varietà. Tra questo suo guardare la mattina quando si alza e la sera quando rincasa  esiste la professione: Mario è uno dei due aiutanti di un anatomo patologo. E’abituato alla morte e alle autopsie che per lui altro non sono che sterili elenchi di descrizioni. Mario prende gli appunti a mano dettatigli dal dottore, mentre l’altra assistente provvede a esaminare i cadaveri con gli strumenti del caso. Poi ribatte il tutto con una vecchia macchina da scrivere che ogni tanto s’incanta e a volte si fa aiutare dalla giovane sorella di Nancy. Non ha mai parlato con il suo oggetto del desiderio. Lo farà una prima volta prendendo il biglietto per lo spettacolo, andando in camerino, interrompendo una discussione tra il direttore del teatro e la ragazza che è appena stata licenziata perché troppo magra, troppo brutta, troppo anziana rispetto alle altre. Il Cile di Pablo Larrain è un miscuglio di gloria passata dal sapore demodé proprio come la rivista di basso profilo, sfiorito come la bellezza di Nancy. Mario non conosce l’amore: la sua vita è osservare, ascoltare diagnosi, trascriverle. Non sappiamo se ha un passato, non conosciamo proprio nulla di lui. Un poco ciò che accadeva con il personaggio di Raul Peralta in <<Tony Manero>>. Probabilmente questo sentimento ha un nome, quello di Nancy, la dirimpettaia di strada che una volta conosciutolo lo chiama <<vicino>> e non con il suo nome, che lo abbandona all’improvviso scendendo da una scassata Fiat 600 perché trascinata da un amico a una manifestazione comunista, che scompare, per poi apparire nel momento del bisogno. Gli incontri tra Nancy e Mario avvengono all’improvviso. Lei sfrutta il sentimento di lui, Mario forse lo sa ma è ciò che prova è più forte di tutto. Assieme si ritroveranno coinvolti nella caduta di Salvador Allende, nella presa del potere da parte dei militari di Pinochet, negli eccidi ma sarà Mario che deciderà il destino della donna.ANCORA una volta Larrain ci mostra il senso del regime attraverso la storia del singolo. L’individuo alle prese con la tragedia di una nazione. Spettatore impotente, rassegnato. Mario vive con la morte accanto e come lui accade agli stessi che lavorano sulle autopsie. I cadaveri si ammucchiano, Mario li trascina dal camion della polizia all’obitorio. Non ha una coscienza politica come la sua collega che si ribella. Non ha nemmeno la capacità di compromesso del medico. Lui accetta supino lo stato delle cose. Ha solo un mezzo per credere di essere vivo: l’ossessione amorosa per Nancy. Quando si tratta di eseguire l’autopsia sul corpo di Allende lui rifiuta solo perché non sa usare la macchina da scrivere elettronica. La sua collega perché è crollata una speranza. Se non esistesse l’icona di Nancy, Mario continuerebbe a trascorrere i propri giorni come un uomo qualunque, un vigliacco, uno che accetta tutto,  un fallito , uno che non sa amarsi. Invece no: il <<vicino>> Mario rifiuta le avances della sua collega- forse la sua donna precedente?- perché va anche con altri uomini. Per Nancy trova il coraggio del compromesso con il direttore del teatro, per Nancy diventa eroe inconsapevole, per Nancy rischia ciò che il Cile di Pinochet non ammetterebbe. L’amore lo renderà eroico e cinico fino in fondo, quando capirà l’offesa al sentimento, rendendosi conto dello sfruttamento  e allo stesso tempo dell’inutilità dei suoi sforzi. <<Post mortem>> non è un film sui cadaveri ma l’autopsia di quel Cile, un corpo martoriato a tradimento nel quale Pablo Larrain affonda gli strumenti del mestiere per mostrarci le cause, per prendere atto di ciò che è stato. Il finale, di una simbolica secchezza, non è più lo sguardo di Raul Peralta <<Tony Manero>> sull’autobus che lo riporta chissà dove e non è nemmeno quello di Mario. Ma è vecchio mobilio accatastato, composto come monumento funebre al rifugio di chi lo ha tradito e dal quale non uscirà mai più. Il carnefice Mario chiude così i conti con le proprie ossessioni.GIA’IL FINALE: bellissimo, intriso di reazione, di gesti, della prima scelta autentica dell’uomo Mario. In tutto questo Pablo Larrain gira in modo meraviglioso, proseguendo a ricordarmi in certe situazioni il miglior Matteo Garrone con il quale trovo parecchi punti di contatto: usa colori sbiaditi, granulosi all’inizio, quasi fosse alle prese con un vecchio film a colori, nel quale la luce non risplende mai. Li rischiara a poco a poco, levandoci sempre qualcosa, proprio per rendere l’ ambiente più cupo e offrire con esattezza quella sensazione di fine, di morte delle coscienze, di purgatorio nel quale i suoi protagonisti sono imprigionati. Alfredo Castro sta al cinema come un tubino a Audrey Hepburn. E’attore capace di esprimere poche battute, di coprire lo schermo con il volto allucinato, di parlare con piccoli gesti, piccoli tic, sempre molto controllati, mai gigioneschi, mai sopra le righe. Ed è stato un bene che il distributore italiano della pellicola, Vania Traxler Protti,  abbia consegnato il film  agli spettatori in versione originale con sottotitoli. Il Cile di Larrain rimane un’allucinazione ma a guadagnarci è soprattutto il cinema.

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