L’impotenza esistenziale trattata con normalità:pregio e limite del film di Kore’eda

In un cinema sempre alla ricerca di paragoni sarebbe meglio non scomodare il fantasma di Ozu-l’immenso Ozu– per parlare di Ritratto di famiglia con tempesta di Hirokazu Kore’eda. Di Ozu infatti in questo film, giunto in sala dodici mesi dopo la sua presentazione alla rassegna Un Certain Regard a Cannes, mancano ritmo, fantasia, motivi per incuriosire gli spettatori distratti, per richiamarli al loro dovere di osservatori attivi di una storia. Mi sembrano quindi eccessive le lodi che giungono nei confronti di un’opera molto interessante ma che corre il rischio di non creare quell’empatia necessaria tra chi osserva e ciò che accade all’interno dello schermo cinematografico. Il fatto che sia cinema giapponese non c’entra nulla, visto che proprio dall’Oriente in generale e dal Sol Levante in particolare giungono spesso e volentieri film dal fortissimo impatto estetico ed emozionale, Kitano e Tsukamoto sopra tutti. Diciamo che in un periodo di carestia-siamo nei giorni pre e post Cannes- sul fronte delle proposte ci sia la tendenza generale a esaltare opere che in altri periodi della stagione sarebbero giudicate con maggior equilibrio. Ritratto di famiglia con tempesta ha molti pregi ed anche alcuni limiti; entrambi coincidono nella condizione di assoluta normalità delle situazioni che vengono proposte. Inutile gridare al miracolo cinematografico quando non è il caso. Sarebbe più corretto fare un plauso al regista giapponese, conosciuto in Italia per il suo Father and Son, per la delicatezza e la grazia con le quali fa capolino nelle speranze tradite di un nucleo familiare. La bravura di Kore’eda sta proprio in questo: riesce a descrivere la disillusione dell’individuo senza che nel suo film accada qualcosa in grado di sconvolgere l’esistenza. Nemmeno una tempesta.

IL PROTAGONISTA del film è uno scrittore: fa molto nouvelle vague. Chiaramente ha pubblicato un solo romanzo, premiato con un riconoscimento di medio valore, e per sbarcare il lunario lavora in un’agenzia investigativa che gli serve per effettuare ricatti e controricatti ai clienti per guadagnare i soldi buoni per ripianare i debiti e per pagare gli alimenti all’ex moglie e al proprio figliolo. Ma ha anche il vizio delle scommesse sulle gare ciclistiche in pista e gli yen si volatilizzano nel volgere di poche ore. È uno spiantato senza successo, di affetti perduti; una simpatica canaglia che frequenta l’appartamento materno un po’per ricevere consolazione dall’anziana genitrice, un po’per rovistare tra le varie cianfrusaglie in cerca di misteriosi lasciti paterni. Il suo obiettivo è quello di riconquistare la moglie e di trasmettere le proprie passioni al piccolo figlio. Sarà appunto un tifone a riunire i componenti della famiglia, pragmatica sorella esclusa, all’interno del palazzo popolare in cui vive la madre. Ognuno sarà costretto, volente o nolente, a doversi confrontare con l’altro in uno spazio fisico obbligato. Ma la tempesta non causerà lo stravolgimento atteso. Gli individui di Kore’eda non hanno maschere. Sono ciò che noi vediamo sullo schermo. È una sorta di Come è beckettiano: prima della tempesta, durante la tempesta, dopo la tempesta. Immutabili.

È IN QUESTO che risiede l’interesse del film: nell’approccio psicologico che soprattutto il personaggio dello scrittore ha con sé stesso. Una nottata trascorsa con moglie e figlio all’interno del ventre non solo metaforico di un polpo architettonico, in realtà uno scivolo per bimbi a cui è stata negata l’agibilità, servirà a mostrare e a vivere scampoli di una realtà alterata. Ciò che avrebbe potuto essere ma non è né sarà mai: la pace, la quiete, l’unione in una sorta di limbo mentale mentre all’esterno infuria la tempesta e volano i biglietti di una lotteria. Quella pioggia e quel vento si cheteranno e rispunterà il sole, anche questo molto beckettiano, sul nulla di nuovo se non nella piena accettazione del proprio essere. Lo scrittore sarà cosciente di essere diventato come suo padre, sapendo anche che il figlioletto probabilmente ne seguirà le proprie orme. C’è una finta serenità nella conclusione del film. Ma poggia sulle basi tragiche del destino degli invidui, sul loro rapporto con il tempo, le ascendenze e le discendenze, sull’impossibilità del cambiamento.

IL MERITO di Hirokazu Kore’eda è nel trasmettere questa sensazione di impotenza in assoluta serenità, facendo fluire senza colpi di scena le esistenze della sua umanità.L’autore è delicato, ironico. Parteggia per i propri eroi, li segue con simpatiche prese di distanze, giocando con gli sguardi e le espressioni, non rinunciando a mostrarne il disincanto. Ma è anche il limite di Ritratto di famiglia con tempesta che per eccessiva ortodossia e coerenza del regista rischia di non coinvolgere, di non scuotere lo spettatore, di non cucirgli addosso l’impossibilità di cui il film è permeato. Come se mancasse una comunicazione diretta, il che non rende l’opera così fondamentale come alcuni vorrebbero. Manca infatti quel pizzico di genialità o il coraggio che avrebbero reso Ritratto di famiglia con tempesta un film davvero importante.

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