Mank: splendido esercizio, troppo algido per i non cinefili

Un film tutto e il suo contrario

Arriva il giorno in cui il fim che stai guardando è di difficile definizione. Ci rifletti, ci ragioni sopra, confronti le tue esperienze e poi concludi che Mank di David Fincher è tutto e il suo contrario, bellissimo e noioso, divertente e scontato, caldissimo e algido, reale e finto. Diventa quindi complesso giudicarlo perché se da un lato la sua visione esalta l’attività mentale, dall’altro lascia lo spettatore distante sul piano emotivo. Non lo coinvolge e non basta al cinefilo giocare all’indovina chi siano i personaggi che ruotano attorno alla storia. Chiunque abbia un minimo di dimestichezza con l’epoca e con Quarto Potere-Citizen Kane, la tribolata creazione di quel film, fatica ben poco. Conosce già i fratelli Mankiewicz, il signor Hearst, il signor Mayer, la signorina Davies, il giovane Welles, il nutrito e qualitativamente eccelso gruppo degli sceneggiatori della Paramount Anni’30 e via dicendo. La superficie indica che Mank sia pensato soprattutto per il grande gaudio dei cinefili . E lo spettatore comune? Beh resta abbastanza freddino perché pur sprigionando una bellezza formale assoluta, questo film recitato in modo perfetto dal fuoriclasse Gary Oldman e da una serie di attori in stato di grazia non riesce a scaldare, non coinvolge in toto. Mank rischia quindi di essere un’opera più ambiziosa che riuscita.

Come Fincher scoperchia il cinismo di Hollywood

Mank non è un’operazione nostalgia, l’ennesima sulla golden age hollywoodiana. David Fincher usa la figura di Herman J Mankiewicz, immenso sceneggiatore di Citizen Kane, per scoperchiare il cinismo di un mondo che pare chiuso in se stesso ma vuole allo stesso tempo condizionare le scelte della gente. Il cinema è (s)vendita di illusioni, è capace di far credere che << King Kong è alto 10 piani e Mary Pickford è vergine a 40 anni>>, è manipolazione anche politica, è falsità. Così Fincher parte dalla estetica dell’epoca creando un film in bianco nero girato con sensori digitali, ovvero quanto di più falso possa esserci, per ricostruire con esattezza quel mondo. È una contraddizione voluta, sono volute le imperfezioni della pellicola che ogni tanto fanno capolino sullo schermo, quei buchi bianchi che lo spettatore si trova davanti all’improvviso.

Lo Xanadu personale del regista

Ma Hollywood è anche presa di coscienza, sofferenza, lo scrivere per denunciare sotto forma di metafora. David Fincher opera in modo provocatorio: come il suo eroe Herman Mankiewicz cercò di ribaltare i canoni della sceneggiatura nella stesura del film di Welles, Fincher crea un proprio Xanadu personale, il film Mank, per parlare dello Xanadu reale. Fa coincidere il mondo alla base di Quarto Potere con la propria opera. Mina le basi del cinema, le mette una a confronto dell’altra, scrittura e immagine, esalta la prima ma per farlo si affida alla seconda, la stessa cosa che era accaduta proprio con il fim di Welles, spietata riflessione allegorica sulla vacuità del potere che cambiò il paradigma hollywoodiano dell’epoca, sancendo l’inizio di una nuova era non solo artistica.

Un’opera <<piana>> che non riscalda

Placata l’ansia dell’interpretazione specialistica, sulle dicotomie scrittura-immagine che fatalmente si annullano l’una con l’altra, resta però la sensazione di distacco tra chi osserva e il film stesso. Alla bellezza formale, all’apparente leggerezza di ciò che passa sullo schermo-pardon sul monitor visto che i cinema li hanno chiusi- non corrisponde l’accensione della fiamma. Tutto Mank gioca su uno schema di alternanza temporale tra il prima di Mankiewicz, il lavoro di sceneggiatore alla Paramount e successivamente alla MGM, e il suo durante, quando di fatto venne recluso per completare in poche settimane lo script di Citizen Kane. Questo serve a Fincher per descrivere il personaggio, la sua evoluzione-involuzione, la sua progressiva presa di coscienza sulla falsità dell’industria del cinema, la lenta discesa nell’autodistruzione e la contemporanea lucidissima osservazione della realtà coincidente con il cinismo di un intero mondo.

La menzogna storica per spiegare la realtà

Per giungere al nucleo centrale delle proprie riflessioni, il regista parte da un dato palesemente smentito dalla storia: un saggio di Pauline Kael in cui si affermava che la sceneggiatura di Citizen Kane fosse interamente di Mankiewicz e che Welles non vi avesse preso parte. È il modo per poter creare fin da subito l’empatia con l’eroe Mankiewicz: Fincher inietta Gary Oldman nelle vene del sistema cinematografico come messaggero virale , per crearne gli anticorpi. Così Orson Welles diventa in Mank una sorta di golden boy farfallone, una macchietta; le figure di William Randolph Hearst, interpretato sempre con grande classe da Charles Dance, e di Louis Burt Mayer i grandi manovratori, vengono tratteggiate in modo netto e spietato da Fincher mentre il personaggio di Marion Davies, Amanda Seyfried, è l’essenza di tutta l’opera, colei che con un breve battito di ciglia, una battuta, riesce a cogliere la sintesi di quel mondo antico che sembra essere drammaticamente moderno. Tutto bello, quindi, ma anche molto complesso nella apparente semplicità di svolgimento. È il limite di un film non banale, superiore alla media che Netflix ha prodotto e distribuito.

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