Fuocoammare, un film doppio nel mare degli altri

I PREMI, ovvero l’Orso d’Oro al Festival di Berlino e il Nastro D’Argento Speciale, sono arrivati. La campagna stampa ha centrato l’obiettivo e quindi le sale dove si proietta Fuocoammare sono piene per la gioia di chi deve gestirle e ricevere un minimo di ricavo da un’attività ben poco remunerativa. Però ho il sospetto che di fronte al BUON- lo scrivo in maiuscolo per timore di essere equivocato- film di Gianfranco Rosi si stia esagerando un pochino, presi come siamo nel volere tutti quanti indossare gli abiti migliori dell’impegno civile, il che spesso fa rima con il più bieco conformismo. Non c’è infatti nulla di nuovo nel discorso che il regista già vincitore del festival di Venezia porta sullo schermo. L’importanza di Fuocoammare non risiede nel prendere atto di cosa accade nel mar Mediterraneo quasi quotidianamente. Ne siamo a conoscenza tutti quanti e credo che ogni persona dotata di un minimo di cervello- e lascio stare la sensibilità- non possa non restare amaramente sbigottita di fronte al dramma di chi cerca di approdare in Europa sfidando guerre, deserti, approfittatori e natura. Non è questo il merito di Gianfranco Rosi che peraltro affronta un tema che il cinema ha già proposto in passato, sia in Italia sia in cinematografie meno conosciute, di frontiera. Il valore di Fuocoammare sta nell’ottica, nel punto di vista, in quel terzo occhio che pare esaltarsi nella ricerca esasperata della pura oggettività, nel tagliare il ramo dell’emotività fin da subito, nel tentativo di mostrare il come è, cosa che nelle arti e persino nella vita è quasi impossibile. Rosi riesce in questa impresa. Non commenta e nemmeno ci offre una fotografia senza anima. In questo credo risieda non tanto l’importanza del premio ricevuto ma del suo film. Tutto il resto di cui si parla, impegno civile, politico lo lascio ai conformisti da salotto. Non fa per me.

FUOCOAMMARE è un film doppio; da una parte c’è un’ottica che insegue un piccolo nucleo di abitanti di Lampedusa: un ragazzino, lo zio marinaio, la nonna, un deejay, un subacqueo che pesca ricci marini, il medico dell’isola che sembra essere l’unico conscio di vivere a metà dei due mondi. Dall’altra le motovedette della Marina, i suoi elicotteri che si alzano in volo, gli sos gracchiati dalle radio di bordo, i barconi, i disperati, i sopravvissuti, i morti. Il colore di Lampedusa ha una luce spenta. Non c’è mai il sole. La luminosità più accesa è quella dei pomodori che prepara l’anziana nonna o le lampade che mostrano il volto del deejay locale impegnato a mandare in onda canzoni popolari con relative dediche. Tutto è pallido, persino l’orizzonte disegnato dal mare, c’è penombra, ci sono i giochi notturni dei ragazzi, il verde sbiadito di cactus presi a fiondate e poi ricostruiti. È un mondo che vive quasi inconsapevole di ciò che accade a poche miglia marine di distanza. Che cerca una normalità da non scalfire, che ha bisogno forse di avere un occhio bendato, quello dal quale si vede bene, come Samuele, il ragazzino, per riportare il cervello ad allenare l’altro che stenta a mettere a fuoco persone e cose. Un universo che appare lontano, quasi antico, dove non arriva tra i ragazzi neppure un’eco emessa da un computer-l’unico che si vede è quello del deejay- popolato di fionde, di barche a remi, di racconti E poi c’è l’altro mondo di Lampedusa: quello della Marina, dei militari, di chi soccorre i disperati dei barconi, dei centri di accoglienza dove si organizzano improvvisate partite di calcio tra varie nazionalità ed etnie e le code dietro alle cabine telefoniche sembrano intermibabili. C’è l’inferno delle barche, dei posti venduti a migliaia di dollari. C’è la morte nelle stive, ci sono gli odori di nafta, il recupero di questa gente, dei vivi e dei morti. Le loro canzoni che parlano di traversate dal Sudan alla Libia fino al rischio del mare. Un mare, che a differenza della terra ferma, cambia luce in continuazione: È blu scuro nella notte che incombe, riflette raggi nel giorno, s’infiamma al tramonto, presagio di un’altra tragedia. Sono due film che procedono in parallelo, che hanno il limite di non unirsi mai, non so se per rifuggere dalla banalità di un incontro che avrebbe dato finzione a ciò che finto non doveva essere, ovvero il film sui migranti o per una sceneggiatura imperfetta, dove lo svolgimento circolare sembra essere bandito fin dalle prime scene.

È DIFFICILE catalogare Fuocoammare o inserirlo in un genere cinematografico. Non appartiene alla fiction ma racconta, come se fosse una favola, la parte dedicata al piccolo nucleo preso in esame a Lampedusa; non è documentario sui migranti ma documenta. È diverso anche dalle opere recenti di registi come Frammartino o Marcello e in questo sta la sua peculiarità, perché identifica il proprio autore. È vincente nel sapere trattare un argomento sul quale Rosi avrebbe potuto calcare la mano e la scena; il suo pudore e la distanza quasi algida con cui mostra sono merce rara. Sono la normalità della morte, la banalità dei cadaveri recuperati, le immagini dei corpi devastati dalla fatica, il lavoro quasi meccanico, di routine, di chi li ha portati in salvo e li deve proteggere e accudire che fanno di Fuocoammare un film di livello. Ma questa << freddezza >> porta, fatalmente, a considerare un limite complessivo dell’opera: che stimolando il cervello non riesce a coinvolgere la pelle con il rischio che quella fetta di mare, presa a metafora di tutte le migrazioni del mondo, resti per gli spettatori sempre il luogo della tragedia degli altri.

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